Sant’Agostino diceva che le città sono fatte dagli uomini che le abitano, non dalle costruzioni e dai monumenti che le danno forma. Sono un insieme coeso di persone che vive e condivide una storia, un territorio, uno spirito, quello che gli antichi chiamavano genius loci. Volti e voci che animano quotidianamente strade e spazi per raccontare la città di oggi, oppure riemergono dalle memorie e dai ricordi, per riportarne in vita l’immagine del passato. L’autobiografia, luogo principe della memoria, diventa allora anche la migliore ricostruzione di un paese e fa, dal di dentro, quello che l’archeologia fa da fuori: scrive la storia.
Se dobbiamo dare credito a questi pensieri – e prendere per buono l’aforisma di Sant’Agostino – allora l’ultima fatica editoriale di Sergio Zavoli, Il ragazzo che io fui, edito da Mondadori, è per forza di cose storia della città. Rimini, innanzi tutto, ma anche Ravenna. Perché il giornalista, scrittore e politico romagnolo è nato nella capitale bizantina ed è arrivato nel paese dei vitelloni in tenera età. È lui stesso a dire, proprio all’inizio del libro, che il debito che ha con la prima non sminuisce il valore della seconda, città adottiva in cui è cresciuto ed è diventato l’uomo e il professionista. Entrambe hanno contribuito a conferirgli quella cifra tipicamente romagnola che ancora oggi l’accompagna: sia Ravenna col suo carattere sfuggevole, malinconico, effimero, quasi corrusca e sospesa nel tempo, sia Rimini, col suo aspetto più sanguigno e gioioso, quello delle stagioni roboanti e delle spacconerie, che quello più nostalgico e nebbioso caro a Fellini.
Il libro si presenta come un’autobiografia sui generis. Non è una sequenza di eventi, dai primi ricordi ad oggi, ma un fiume impetuoso, quasi una scrittura automatica che cerca subito di svincolarsi dalla rigida costruzione delle memorie stampate su carta. Le pagine sono pensate come un dialogo che Zavoli fa con il piccolo Andrea, nipote da poco arrivato in famiglia a cui il giornalista affida, quasi un testimone, la storia della sua vita.
Ne emerge una Rimini distante nel tempo, sembra di guardare le foto ingiallite della città prima dei bombardamenti. Come quando Zavoli racconta della sua prima casa, in via Tripoli e di quando si svegliava, per andare a scuola, al suono della sirena della vicina officina ferroviaria, e il tragitto percorso per un tratto insieme agli operai che andavano a lavorare.
C’è gran parte del ‘900 in questa vita e in questo libro: le lotte sociali e di classe, la stagione del terrorismo – che Zavoli racconta anche come giornalista in La notte della Repubblica – l’ascesa del fascismo, le adunate e la tragedia della guerra.
A differenza della città ridotta in macerie, le memorie sono ancora resistenti e vivide nella mente dello scrittore che ricorda le notti passate nelle gallerie ferroviarie di San Marino, una corsia del dolore con la paura dei bombardamenti che attanagliava, ma anche l’inatteso odore del pane che veniva preparato per tutti e diviso quasi come un’eucarestia. O il momento della ricostruzione, insieme tragico e pieno di speranza. L’episodio, raccontato da Zavoli, è quello del ritorno alla città distrutta. I riminesi che arrivano uno a uno e trovano le loro cose in mezzo alle macerie. Le raccolgono, le recuperano. E insieme a quelle anche quelle degli altri. Chi ha bisogno di una porta, chi di una finestra. In poco tempo si formano lunghe file di persone che cercano le proprie cose e che hanno voglia di ricostruire.
Ma se il passato presenta ricordi tanto dolorosi, legati a stagioni di scontri e lotte feroci, il pensiero di Zavoli guarda al futuro. Le pagine del libro si muovono sul filo della dialettica tra le memorie e gli uomini che dovranno ancora venire. Punto focale di questo dialogo è proprio il giovane Andrea, destinatario di questi pensieri e futuro membro di una generazione ancora in formazione, che riceve questa grande mole di informazioni e di parole che si dipana per oltre 250 pagine mescolando ricordi personali e storia mondiale. Che la memoria sia protagonista del libro ma solo nell’ottica della costruzione del futuro – e non in mera visione nostalgica – Zavoli stesso ce lo dice all’inizio e alla fine del libro, in due citazioni. La prima è il titolo stesso, Il ragazzo che io fui, citazione di Georges Bernanos, che scrisse: “Ho visto tanti morti nella mia vita, ma più morto di tutti è il ragazzo che io fui”, perché la memoria è la coscienza di un cammino e soprattutto di un cambiamento. L’ultima è invece di Primo Levi: “La memoria è in qualche modo ciò che ci permette di parlare ai giovani anche delle nostre sconfitte”. E ancora Zavoli, durante la presentazione del libro a Rimini, ha aperto dicendo: “Siamo uomini in funzione dell’avvenire, del futuro”.
Stefano Rossini