Bardha Hyseni ha 44 anni, è albanese, di Kucova, da 10 anni in Italia, insegnante, mediatrice culturale, organizzatrice di eventi e tanto altro ancora. Quando bussa alla porta del giornale è titubante, vacilla sulle gambe. Vuole raccontare, vuole raccontarsi, ma non ha ancora capito da dove cominciare. Cosa dire? che parole usare per far capire la sua storia e quello che ha fatto tra l’Italia e l’Albania negli ultimi 20 anni? Un percorso d’incontro con la Chiesa Cattolica, la conversione, il battesimo e la lotta – in prima persona – per “educare” le ragazze del suo paese, gli studenti della scuola dove ha, a lungo, insegnato. Per far conoscere loro situazioni celate. Per dir loro che non tutti gli uomini che le volevano portare in Italia per sposarle, alla fine lo facevano sul serio; che in Italia molte delle loro sorelle, cugine e figlie finivano nel giro della prostituzione; che esisteva un don – don Oreste – che le poteva aiutare. A lui potevano chiedere notizie delle “figlie” che non erano più ritornate. E poi l’arrivo in Italia e il progetto di una corsa podistica che ogni anno, in primavera, da 4 anni, porta per le strade di Kucova oltre 1000 ragazzi che indossano magliette che portano “scritte addosso” le parole di don Oreste e madre Teresa di Calcutta.
“Partirei dal 1993, quando in Albania, a Kucova arrivò la Missione della Diocesi di Rimini. Prima l’ho acclamata, poi l’ho criticata, poi l’ho coinvolta nella mia vita, e…”. E ancora si perde tra i ricordi e le parole.
Allora Bardha, dimmi che cosa ha significato per te la presenza della Missione in Albania. Cominciamo dal principio.
“Appena è arrivata io ho avuto delle sensazioni molto positive. La vedevo come un’opportunità, un modo per traghettare quella società, vecchia e corrotta in una società nuova. Per questo ne parlavo ai ragazzi della scuola nella quale insegnavo. Io avevo 500 ragazzi, 40 per classe, e dicevo loro che c’era la possibilità della borsa di studio, di avere un aiuto. Li spingevo ad andarci, alla Missione, perché la Chiesa accoglie tutti, è aperta a tutti. Poi mi sono accorta che non era sempre così”.
Che cosa intendi?
“Chi lavorava nella Missione – non per colpa loro, badiamo bene – non si era reso conto che, in un primo momento, molte persone, albanesi, furbe e cattive, la stavano usando. I bravi ragazzi vedevano che le borse di studio le prendevano dei loro coetanei che – a loro dire – non le meritavano e questo li allontanava dalla Missione e dalla Chiesa. Era come se ci fosse una discrepanza tra quello che io dicevo loro, sul fatto che la Chiesa accogliesse e aiutasse tutti, e quello che loro vedevano nella realtà. E poi io sapevo – perché li conoscevo – che non tutte le persone che frequentavano la Missione erano credenti. Lo facevano per opportunismo, magari sperando di vedere i figli studiare in Italia”.
Mi pare di capire che la questione centrale, per i tuoi ragazzi, fosse la borsa di studio. Come mai questa avversione? Era solo un’opportunità mancata? Un desiderio non avverato?
“Un po’ sì. Un po’ devo dire, con sincerità, che esisteva una reticenza nei confronti di questo strumento perché a lungo era stato usato dal dittatore come favoritismo. Allora, la presenza della dittatura era ancora fresca e creava qualche dubbio in più”.
Ma se tu avevi colto questa discrepanza, tra la realtà e la teoria, perché non l’hai denunciata?
“Non ne avevo le forze, ero giovane, lavoravo, due figlie piccole. Non mi potevo impegnare in prima persona. Ma detto questo valuto la Missione molto positivamente. È un presidio. Una presenza molto importante con persone carismatiche. Io, per esempio, sono stata conquistata da suor Norma. Lei veniva in mezzo a noi, dentro le nostre case e non ci diceva «Pregate. Venite a messa», non ci imponeva la sua fede ma ce la mostrava. Ci dava il suo sorriso. La sua fede, il suo Dio era con lei e ci diceva come fare i lavori di casa, come educare le nostre bambine. Lei mi ha conquistata così ho cominciato a frequentare più assiduamente anche la Missione”.
E poi?
“Nel 1998 ho parlato con Don Antonio Moro, ho parlato anche delle mie perplessità. Ma la cosa importante è che da qui è cominciato un percorso bellissimo. Con lui e don Osvaldo Caldari abbiamo cominciato un ciclo d’incontri nelle mie classi, alle mie ore di lezione. Si parlava di tutto, della Missione e non solo. Attraverso loro abbiamo conosciuto la figura di don Oreste e abbiamo saputo che lui ci poteva aiutare con le nostre ragazze. Per trovarle ma anche per non far ripetere loro gli stessi errori delle loro sorelle. Sono stata richiamata dal preside. Ho rischiato anche il licenziamento. Quando mi sono trovata davanti a lui, occhi negli occhi, gli ho detto: «Tu vorresti che una delle tue figlie venisse presa e portata via, sfruttata, fatta prostituta?». Io sapevo che mi potevo permettere di parlare così con lui. Eravamo cresciuti nello stesso paese. Eravamo amici da piccoli. Allora lui mi ha guardato e mi ha risposto «Fai quello che vuoi». Così è cominciato. E sono andata avanti sino a quando sono venuta in Italia. Ho fatto il mio cammino dentro la Parrocchia di Savignano e nel 2004 mi sono battezzata con tutta la mia famiglia. È stato un giorno bellissimo”.
Adesso, Bardha, vorrei parlare del tuo “ritorno” in Albania. Tu vivi fisicamente a Rimini ma questo non ti ha impedito di organizzare questa gara podistica primaverile che coinvolge migliaia di ragazzi. Come fai a lavorare da qui? E perché hai scelto di organizzare questa manifestazione?
“Comincio dalla fine. Perché ho pensato a questa manifestazione. Volevo dare qualcosa alla città. Volevo dire il mio grazie alla Missione per tutto quello che ha fatto nella mia città. Volevo dire che un cambiamento è possibile e che è per tutti, che la Chiesa è per tutti. Ho ancora dei contatti nel mio paese. Molti presidi, mie studentesse che sono nel frattempo diventate insegnanti, educatrici e che mi danno una grossa mano”.
Quante persone hai coinvolto in questa cosa?
“Tante. Non riesco nemmeno a contarle e a ringraziarle tutte. Qui, da Rimini, arrivano i regali e i premi che distribuiamo ai ragazzi che partecipano alla corsa. Quante persone avrei da ringraziare… Don Marco Foschi mi ha regalato, un anno, dodici palloni bellissimi. E poi Pierino Buda della Banca Romagna Est, la Protezione civile e tanti altri che mi hanno dato anche piccole cose. Per esempio una volta ho portato delle spillette con sopra il numero 46 di Valentino Rossi. Io non lo sapevo ancora che cosa significasse. Ma sono rimasta stupita e ho gioito nel vedere che tanti ragazzi partecipavano alla gara anche solo per avere una spilletta, che per loro significava tantissimo!”.
Però c’è una cosa che non capisco. Le autorità della città che ti hanno dato il permesso di portare in strada tutti questi ragazzi. Come ci sei riuscita? Ti ricordo che solo per aver fatto entrare due don nelle tue aule hai rischiato il licenziamento. Come è stato possibile coinvolgere tutte le scuole superiori di Kucova?
“Sono tante le considerazioni da fare. La prima è quella che sono io, in quanto privata cittadina, ad organizzare questa cosa. Io con l’aiuto del Csi (Centro Sportivo Italiano) di Rimini siamo gli organizzatori. Convincerli è stato relativamente semplice. Io mi rendo conto che non è semplice capire come funzionino le logiche della politica albanese ma in poche parole io ero, per loro, una persona innocua. Il mio passato, il fatto che la mia fosse una famiglia tranquilla, ha influito molto. Adesso l’iniziativa è radicata. Sono felice. Non la tocca più nessuno la mia gara podistica!”.
Ma come hai fatto passare il tuo messaggio di cattolica, il tuo Dio, in tutto questo?
“Don Oreste è sulle magliette di tutti i ragazzi che gareggiano. Don Oreste uomo è lo stesso di Don Oreste prete, no? È sul filo che mi muovo. Ma il risultato per me è stupefacente. Era impensabile quando iniziai”.
E le autorità albanesi, adesso che la gara è una realtà affermata cosa dicono?
“Loro sono contenti. Sapessi quanti attestati di stima mi arrivano. Lettere di ringraziamento per quello che faccio, e facciamo, per questi ragazzi. Per me è motivo di orgoglio”.
L’ultima Cross primaverile di Kucova si è tenuta lo scorso 25 maggio. Per strada oltre 1200 ragazzi dai 14 ai 19 anni. Sulle loro maglie la scritta “Non temo il male che c’è ma il bene che manca” (don Oreste Benzi)
Angela De Rubeis