Una svolta positiva nei rapporti tra i Malatesta e il papato si ebbe quando il cardinale spagnolo Egidio di Albornoz, inviato in Italia come legato (1353-1367), realizzò una importante riforma istituzionale, costituendo il vicariato apostolico.
I Malatesta, capitani
dell’esercito pontificio
Nel 1355 papa Innocenzo VI dietro giuramento di fedeltà e versamento di un canone di 6.000 fiorini annui, concesse a Malatesta III (detto Guastafamiglia) e al fratello Galeotto I la funzione di rappresentanti del governo del pontefice su Rimini, Pesaro, Fossombrone, Fano e i rispettivi territori rurali; concessione di durata annuale ma rinnovabile; a questa si aggiunsero le nomine a capitani dell’esercito pontificio, gonfalonieri della Chiesa e senatori di Roma, ottenute da Galeotto I e dal nipote Malatesta Ungaro.
I Malatesta entravano così più strettamente nell’orbita della stato pontificio. Che il papa, però, continuasse a vigilare sulle loro aspirazioni egemoniche, lo si ricava dalla Descrizione della Romagna realizzata nel 1371, dal cardinale Anglico de Grimonard. In essa compaiono dipendenti direttamente dal papa il borgo di Cattolica e il vicariato di Santarcangelo. Evidentemente per contenere le mire espansionistiche dei Malatesta verso il Pesarese da una parte e verso il Cesenate dall’altra. Il che non impedì a Galeotto I di assumere il dominio su Cesena e di conquistare il porto di Cesenatico, come prima tappa verso il successivo controllo delle saline di Cervia…
Una famiglia
fra fede e potere
Se la politica dei Malatesta nei confronti del papato di Avignone fu oscillante tra lealtà e ribellione, all’interno della città fu invece molto accorta e cercò di coinvolgere il clero secolare nelle sue più alte cariche e gli Ordini mendicanti, con una predilezione particolare per l’ordine dei francescani: Malatesta da Verucchio, nel testamento redatto nel 1311 (nel quale risultano testimoni il vescovo e il preposto dei canonici) lascia cospicue donazioni a tutte le chiese e ai luoghi pii della città e quanto basta per sostenere le spese necessarie per organizzare a Rimini i capitoli degli Agostiniani, dei Domenicani e dei Francescani. Esprime inoltre la volontà di essere sepolto col solo saio francescano, eleggendo la chiesa di San Francesco come luogo di sepoltura. Esempio che verrà seguito anche da altri suoi successori. Le ragioni politiche saranno state sicuramente preminenti, ma almeno per alcuni si trattava di una fede partecipata, come per Malatesta Ungaro (1327-1372), di cui sappiamo che, dopo la fine tragica di una relazione amorosa, compì un pellegrinaggio di espiazione alla grotta situata in Inghilterra e nota come il “Purgatorio di san Patrizio”; o come Galeotto Roberto (1411-1432) che fu terziario francescano e nella sua breve vita fu un esempio tanto limpido di carità e di penitenza che, pur senza essere stato canonizzato, venne venerato per secoli come beato.
La vivacità culturale
degli Ordini mendicanti
Non fa meraviglia che gli Ordini mendicanti fossero i più diretti interlocutori dei nuovi signori, perché la loro presenza in città continuava ad essere vivace sia sul piano della pastorale che su quello culturale.
Al domenicano Guido Vernani “lettore” presso lo Studio di Rimini dal 1324 al 1344, si deve la divulgazione delle opere morali e politiche di Aristotele, filtrate attraverso il commento che ne aveva fatto Tommaso e pensate per un pubblico di “non addetti ai lavori”, come si ricava dalla dedica del trattato Sulle virtù ai signori Malatesta (quasi certamente Malatesta III Guastafamiglia e suo fratello Galeotto). L’obiettivo è di mostrare allo stesso pubblico acculturato al quale si era rivolto Dante che le posizioni di Aristotele erano pienamente compatibili con le posizioni papali. In accordo, infatti, con l’Unam sanctam di Bonifacio VIII (di cui fece anche un commento) contro la Monarchia di Dante, Vernani sosteneva non solo la superiorità del potere spirituale su quello temporale, ma affermava anche che non esiste potere temporale legittimo al di fuori di quello instaurato dalla somma autorità spirituale.
Gregorio da Rimini, priore
generale degli Agostiniani
Se le posizioni politiche di Guidi Vernani risultano fin troppo legate al passato, più attento al nuovo che si fa strada è l’agostiniano Gregorio. Originario di Rimini, aveva compiuto i suoi studi a Parigi dove aveva ricevuto il titolo di “lettore” e in seguito quello di “maestro in teologia”; dopo avere insegnato in molte città e aver ricoperto incarichi delicati per conto dello Stato pontificio, nel 1357 fu eletto priore generale dell’Ordine. L’epistolario scritto mentre ricopriva questa carica ci testimonia l’impegno rigoroso nel ristabilire l’osservanza delle regole dell’ordine, unito ad una modalità di correzione comprensiva delle debolezze umane. Nella sua opera maggiore, il Commento alle Sentenze si confronta col nominalismo del francescano Ockham: con lui sostiene che conoscenza razionale e teologia sono conoscenze distinte, l’una limitata al fatto accertabile e l’altra ai dogmi della fede; ma mentre per Ockham il fatto che sia impossibile attingere razionalmente i preamboli della fede a partire dalla conoscenza delle cose apre il campo allo scetticismo, per Gregorio è una ragione in più per aderire alla verità rivelata. In questo tentativo di riconciliare l’autonomia della fede e della ragione non per sintesi (come aveva fatto Tommaso), ma considerandole separate Gregorio si fa interprete della nuova coscienza, che propendeva a divaricare le due realtà, per dare da una parte più spazio a Dio nella sua trascendenza e dall’altra per desiderare un impegno più autonomo dell’uomo nella costruzione della sua vicenda.
Anche il Trattato sull’usura rivela intelligente attenzione ad una realtà in rapido mutamento. Il problema riguardava la liceità di ricevere interessi sui titoli emessi dai comuni per rimpinguare le esauste finanze pubbliche, e di ricavare guadagni dal loro commercio. La risposta di Gregorio è un appello alla coscienza individuale: per colui che presta o che acquista un titolo si può parlare di usura unicamente se lo fa con l’intenzione di guadagnare per il solo fatto di prestare o acquistare; per colui che riceve in prestito o che rivende un titolo il “di più” che restituisce o guadagna deve costituire un “indennizzo” e non un interesse in senso stretto. Non negando a priori la liceità dell’interesse sul prestito forzoso o il guadagno dalla compravendita dei titoli, purché si configuri come indennizzo, Gregorio contribuisce a modificare l’atteggiamento della Chiesa nei confronti dell’attività creditizia e a preparare l’avvento dei Monti di Pietà, che saranno fondati il secolo successivo.
La Scuola riminese
del Trecento
Durante il XIV secolo gli Ordini mendicanti sono anche i committenti di importanti opere artistiche, finalizzate ad abbellire le loro chiese e ad essere strumenti per una maggiore efficacia pastorale.
Per loro, già verso la fine del Duecento, Giotto aveva dipinto lo straordinario Crocifisso della chiesa di San Francesco, che non offriva più ai fedeli un’immagine piatta e distante, né un’immagine inarcata capace di trasmettere unicamente il peso del dolore, ma una sintesi potente di umanità dolente e di interiore serenità: il capo reclinato che sembra riposare dolcemente sulla conca lucente dell’aureola, il corpo di uomo perfetto che risalta innocente sulla croce azzurra. Nelle tre stelle splendenti d’oro poste a conclusione dei bracci della croce (e oggi purtroppo perdute) erano raffigurate: ai lati le figure dolenti di Giovanni e Maria, a ricordare la partecipazione della Chiesa alla passione e in alto la figura del Cristo benedicente, a ricordare che il sacrificio si era coronato con la resurrezione.
Le eccezionali capacità comunicative del linguaggio di Giotto vengono assimilate dai pittori locali di quella che viene definita “scuola riminese del Trecento” e mescolate alle influenze gotico-bizantine, a quelle della scuola veneziana e dei maestri senesi, per dar vita ad una pittura in grado di rispondere alle nuove esigenze. Ad essa gli Ordini mendicanti chiedono non più di rappresentare immagini sontuose o decorazioni allusive e simboliche, ma figure esemplari per santità, capaci di suggerire le grandi verità della fede e di accompagnare la preghiera. Dei grandi cicli di affreschi che decoravano le chiese degli Ordini mendicanti rimane solo, non completo, quello della chiesa di Sant’Agostino. Nella ricostruzione che se ne può fare, iniziava dalla Croce redentrice sulla quale è immolato l’Agnello, e terminava nel Giudizio finale con la manifestazione e il trionfo dell’Agnello: una predicazione “per figure” destinata ad accompagnare quella “per parole”. (9 – continua)
Cinzia Montevecchi