La spiritualità francescana, innestandosi su quella benedettina dell’ora et labora, ispira la vita di santi come il beato Amato di Saludecio (1226-1292), che visse il Vangelo nella più genuina spiritualità francescana nell’amore per Cristo e per tutti gli uomini e nella scelta della povertà come purificazione da ogni cupidigia. Dispensando ai poveri l’eredità paterna sceglie di essere agricoltore, dividendo il suo tempo tra il lavoro dei campi e la preghiera, intraprende lunghi pellegrinaggi per sperimentare i disagi della povertà “reale”; e amplia la casa ereditata dal padre per farne un ospizio per i pellegrini che si recano a piedi nei santuari dell’Umbria o a Roma, premuroso nel confortarne lo spirito e nel ristorarne il corpo. E quando tutte le provviste sono esaurite, soccorre il miracolo. È il primo “laico” a vivere l’esperienza mistica e l’assistenza ai poveri come vie di santità.
Chiara,
santa e ribelle
Legata alla spiritualità francescana è anche Chiara degli Agolanti (1270-1326), “santa e ribelle”, che, nata in una nobile famiglia, bella e amante della vita, era vissuta nel lusso e nei piaceri finché dopo la morte del marito, entrata nella chiesa di San Francesco, ha una illuminazione che la porta a cambiare radicalmente vita. Non entra in convento, ma si dedica ad una vita eremitica, privandosi di ogni pur legittima comodità, tanto da suscitare sospetti di eresia e stregoneria. Ma la fama della sua santità cresce presso ogni persona che l’avvicina, perché l’amore verso Dio la spinge ad aiutare chiunque ricorra a lei: assiste il fratello infermo, distribuisce ai poveri il suo poco pane, cura le piaghe dei lebbrosi, intercede per i deboli presso i potenti, istruisce gli ignoranti e con le sue parole di fuoco converte increduli e peccatori. Finché altre sorelle si uniscono a lei e nasce il monastero conosciuto come “degli Angeli”, animato da vivo spirito francescano.
Giovanni Queruli
santo dei poveri
Anche la santità dei canonici della cattedrale, come è il beato Giovanni Queruli da Verucchio(1270-1320), passa per la stessa via: preghiera ininterrotta e attenzione ai poveri. La raccolta dei centosessantun miracoli che compì a favore dei poveri in vita e dopo la morte è quanto mai interessante, perché ci apre uno squarcio sul mondo della gente comune, che raramente ha voce nelle carte di questo periodo: guarigioni di orecchie, denti, dal tremore delle mani, dalla gobba… contadini in difficoltà per la perdita o la malattia degli animali da lavoro, per la improduttività dei campi, bisognosi di aiuto e rassicurazione.
Una comunità “ospitale”
con i poveri
Una società, che vede aumentare a dismisura il numero dei suoi poveri, a causa di guerre, epidemie, carestie, alluvioni, terremoti, continua a rendere culto pubblico ai santi Colomba, Giuliano e Gaudenzio, ma nel privato sembra volgersi ad un nuovo ideale di santità, più appartato e quotidiano, che unisce alla contemplazione e alla preghiera una preoccupazione costante e solidale con quanti sperimentano la fatica del vivere.
L’impoverimento generale, d’altra parte, è dimostrato anche dal fatto che in questo secolo cresce notevolmente il numero dei nuovi “ospedali”, in città – in particolare lungo le vie di accesso – e nel contado. Fondati da laici e dati in gestione a ordini religioso-cavallereschi, monastici o a confraternite, di dimensioni piuttosto ridotte (a volte non più di due o tre letti), avevano come loro missione la pratica delle sette opere di misericordia corporale: alle vedove, agli orfani e ai senzatetto fornivano riparo, vestiario e cibo; si preoccupavano di assistere i carcerati, di seppellire i nullatenenti, i forestieri e i condannati; ai malati fornivano le cure necessarie, ai vecchi un ricovero per gli ultimi anni della vita.
I lebbrosi di
San Lazzaro al Terzo
Vicino all’odierna Miramare venne fondato da un gruppo di laici, che in seguito abbracciarono la regola di san Benedetto, anche l’ospedale di San Lazzaro al Terzo, così chiamato perché sorgeva al terzo miglio della via Flaminia. Era destinato alla cura dei lebbrosi, che provenivano dalla Terra Santa e che, per disposizioni statutarie comunali, non potevano alloggiare in città.
Le risorse di cui gli ospedali disponevano erano costituite da cessioni del vescovo, del papa o dell’imperatore, donazioni varie e lasciti testamentari. In altri casi erano cittadini riuniti in confraternita a promuovere l’“ospedale” e a curarne la gestione.
La confraternita
degli Armeni
La confraternita di cui si ha la testimonianza più antica è quella degli Armeni, che nel 1215 appare gestire l’Ospedale di S Giovanni.
La regola dell’ospedale di Santo Spirito, che sorgeva alla periferia del borgo San Giovanni, risale al 1265 e ci informa con precisione su ogni aspetto della sua vita. Da questa apprendiamo, tra l’altro, che i fratelli e le sorelle che si mettevano a servizio dei poveri assumevano un impegno perpetuo, poiché dovevano fare voto di castità, povertà e ubbidienza e nell’accogliere i poveri erano tenuti ad essere “benigni, discreti e prudenti”; prima di venire accolti i poveri dovevano confessarsi; gli interessi patrimoniali, inoltre, erano tutelati dal Capitolo della cattedrale. Una regola, quindi, emblematica, sia perché lascia intuire come attorno alle istituzioni ospedaliere si stessero formando patrimoni molto consistenti, sia perché mostra il diretto interessamento della chiesa nell’attività dell’ospedale.
Si ricava dunque che anche in periodi di crisi la comunità cristiana nel suo insieme non dimenticava i suoi poveri e per la loro cura continuava a impegnare molti uomini e risorse.
(7 – continua)
Cinzia Montevecchi