Gli ultimi anni del Duecento registrano una svolta importante per la città, sia sul piano interno, con il prevalere dei Malatesta, che nel 1295 superano i rivali Parcitade e si avviano a diventare signori della città, sia all’esterno con l’assorbimento di Rimini e del suo contado nello Stato della Chiesa, da quando nel 1278 Rodolfo d’Asburgo rinuncia ai residui diritti imperiali sulla Romagna.
L’influenza francese
sul papato
Il papato poteva così illudersi di essere uscito vincitore dalla lunghissima contesa con l’impero: nel 1302 il papa Bonifacio VIII con la bolla >Unam sanctam affermava che “nella potestà della Chiesa sono distinte due spade, quella spirituale e quella temporale; la prima viene condotta dalla Chiesa, la seconda per la Chiesa. Quella per mano del sacerdote e questa per mano del re, ma dietro indicazione del sacerdote”.
Fu, in realtà, una vittoria di Pirro, perché il declino dell’Impero portò con sé anche la crisi della Chiesa che, perduto ogni sostegno, non riuscì più a opporsi allo sviluppo degli stati nazionali. Lo dimostrò l’immediata reazione alla bolla papale del re di Francia Filippo il Bello, che iniziò una lotta aperta e rispose alla scomunica del papa assediandolo ad Anagni. Da quel momento l’influenza francese sul papato fu sempre più forte, finché Clemente V (1305-1314) ritenne che non fosse necessario per il pontefice risiedere a Roma e, dopo essersi fatto incoronare a Lione, pose la sua sede ad Avignone, dove risiedettero anche i suoi successori fino al 1377.
L’ultimo vescovo
“riminese”
Da Avignone i papi esercitano il loro controllo spirituale sul Riminese, avocando a sé in maniera sistematica l’approvazione e la nomina dei vescovi. Forse l’ultimo originario della zona fu il vescovo Federico Balacchi (1303-1321) di Santarcangelo. La sua attività è piuttosto ben documentata e riguarda l’accoglimento dello stanziamento dei Serviti (1315), iniziative di vigilanza sulle case monastiche, la volontà di riequilibrare i rapporti tra la Canonica e gli Ordini mendicanti, in particolare nel campo della devozione pubblica e popolare. In obbedienza al papa deve anche eseguire il trasferimento ai cavalieri Gerosolomitani dei beni che i cavalieri Templari possedevano in diocesi (in particolare le chiese dei Santi Simone e Giuda e di San Michelino in Foro). Papa Clemente V, infatti, succube della politica di Filippo il Bello, aveva nel 1312 soppresso l’ordine, permettendo che il re ne incamerasse le ricche proprietà situate in Francia.
I vescovi e
la crisi avignonese
Nei settant’anni del periodo avignonese si succedono sulla cattedra vescovile altri dieci vescovi, certo estranei agli equilibri di potere e ai contrasti di famiglie all’interno della diocesi, ma estranei anche alle caratteristiche peculiari e alle tradizioni del territorio; spesso assenti per i motivi più diversi (non ultimo quello di considerare la diocesi una sine cura un beneficio ottenuto in cambio di aiuti politici e militari), governavano attraverso vicari, perlopiù concittadini, chiamati a compartecipare alla gestione patrimoniale e clientelare. La loro frequente assenza contribuisce ad approfondire la distanza non solo con le istituzioni cittadine, ma anche col Capitolo della cattedrale, che spesso esercita una giurisdizione in competizione con quella del vescovo. Notevole, in questo senso, il rifiuto che i canonici opposero alla visita del vescovo nel 1326; la contesa che ne nacque fu risolta applicando a loro la condizione di direttamente soggetti al pontefice e quindi liberi da ogni giurisdizione del vescovo!
L’episcopio e il clero locale, nonostante le reciproche rivalità, potevano tuttavia dirsi allineati nello spirituale come nel temporale sulle posizioni del papato.
Un riminese
ad Avignone
Ne è illustre testimonianza Gozio Battagli, originario di Rimini, che fu più volte presente presso la curia di Avignone ottenendo incarichi sempre più prestigiosi: fu canonico e docente di diritto a Coimbra, giudice ad Avignone, patriarca latino a Costantinopoli, nunzio apostolico in Sicilia, finché fu eletto cardinale da Benedetto XII. L’unico dei sette cardinali eletti in quell’anno a non essere francese. Da Avignone spediva a Rimini dipinti, stoffe, argenti, reliquiari per le cappelle che faceva costruire in Cattedrale, a Sant’Agnese e in San Francesco.
La scalata
dei Malatesta
Nel mondo comunale, invece, il potere temporale non fu senza resistenze. I conflitti con la Curia romana, riguardavano in particolare il controllo del territorio, dove già Bonifacio VIII aveva costituito i vicariati di Santarcangelo, Saludecio, Mondaino, Longiano, Savignano, come organi di diretto governo papale per sottrarli alle pretese del comune. Inoltre, i legati pontifici, rappresentanti del potere temporale dei papi, dovevano vedersela a Rimini come nelle altre città della Romagna con le grandi famiglie che di fatto detenevano il controllo.
I Malatesta, podestà del comune, ormai senza più rivali nella loro scalata al potere, durante il periodo avignonese mutarono continuamente i rapporti col papa: a volte ricevevano incarichi fiduciari, più spesso ne violavano i diritti sovrani nel Riminese, nel resto della Romagna e nella Marca Anconetana. Insieme agli altri potenti della regione ebbero una parte non trascurabile nel fallimento della legazione del cardinale francese Bertrando del Poggetto, che nel 1334, nel tentativo di ristabilire il controllo pontificio, fu clamorosamente sconfitto. Non intendevano, evidentemente, rinunciare ai vantaggi conquistati. Sono infatti di quell’anno gli Statuti comunali che abrogavano tutte le norme che avrebbero potuto limitare l’autorità dei nuovi signori.
L’attrito con la curia
avignonese
Le ragioni di attrito col papato di Avignone spesso erano dovute al ritardo nei pagamenti di penali, risarcimenti, taglie, come richiedevano insistentemente le lettere papali e più in generale alla evasione della disciplina fiscale.
La curia avignonese, infatti, aveva dato un fortissimo incremento al regime fiscale, in parte connesso all’esigenza di procacciarsi introiti che risanassero il passivo sempre più alto dello Stato pontificio, in parte per necessità di contante, dovuta alla nuova situazione economica, che, nella nuova economia di mercato, vedeva gli scambi monetari sostituirsi al regime di produzione naturale.
Gli ebrei
a Rimini
L’aumentata circolazione di moneta ha i suoi effetti anche nel Riminese, dove si espande l’attività creditizia, sia quella dei cambiavalute, sia quella del prestito su pegno, quest’ultimo interdetto ai cristiani perché ritenuto immorale e quindi riservato agli ebrei. Per questa ragione, pur attestata già a partire dall’XI secolo, la presenza degli ebrei sul territorio, si fa più radicata nel XIV secolo. I documenti certificano che potevano possedere case e terreni in qualunque luogo della città e del contado, celebrare le loro feste e i momenti di preghiera nei giorni da loro stabiliti, senza essere costretti, in quei giorni, ad esercitare il prestito. Unica limitazione: non era loro consentito uscire di casa durante il venerdì santo…
A Rimini si erano stabiliti provenendo da varie località, in particolare dalla Romagna e dall’Italia centrale, si dedicavano a diverse attività, dal commercio di abiti usati all’oreficeria, ma quella preminente era, appunto, l’attività creditizia. Spesso furono i Malatesta a chiedere l’intervento degli ebrei per risolvere i loro problemi finanziari, a volte furono anche gli istituti religiosi a ricorrere al prestito, che dovette presto essere regolato dagli Statuti cittadini, che vietavano, tra le altre disposizioni, di accettare in pegno oggetti sacri. Spesso erano privati, che chiedevano poche monete e davano a garanzia le loro povere cose, talvolta persino gli attrezzi da lavoro…(8 – continua)
Cinzia Montevecchi