A partire dal 1185 si erano stabiliti a Rimini città i patari, radicati in particolare nel rione Pomposo, lungo quella che viene chiamata appunto Fossa Patara, che ben si prestava alle varie attività artigianali alle quali si dedicavano.
L’origine del nome patari è ancora oggi un enigma, ma già in un canone del Concilio Lateranense del 1170 esso è usato come sinonimo di catari, a indicare in particolare i catari dell’Italia e della Bosnia, una versione più moderata rispetto all’originario dualismo assoluto.
Il movimento dei catari
Il movimento dei catari traeva origine da una forma di manicheismo, che dall’Armenia era stato rielaborato in Macedonia intorno al X secolo. I catari insegnavano che il mondo era stato creato dal diavolo e che era totalmente dominato da lui; anche le anime pure degli uomini erano state incarcerate nella materia cattiva. Il Dio buono del Nuovo Testamento aveva inviato uno dei suoi angeli – Gesù Cristo – a insegnare ai “puri” (<+cors>katharoi<+testo_band> in greco) la via verso il cielo, attraverso l’ascesi e il rifiuto del mondo. I “perfetti” dovevano astenersi da ogni contatto sessuale, matrimonio compreso, da ogni specie di lavoro materiale, beni e ricchezze terreni.
Portate in Occidente dai mercanti e dai crociati, tali dottrine si erano intrecciate con quelle dei riformatori radicali che sognavano una chiesa evangelica e povera e i catari contrapposero alla ricca chiesa cattolica, piena di beni temporali “peccaminosi”, la loro “chiesa” povera che condannava ogni forma di possesso.
L’interessata “tolleranza” del Comune
A Rimini la presenza dei patari durò circa centocinquanta anni (1185-1330) e fu difficile da estirpare, perché si andò ad intrecciare, come spesso accade, con ragioni politiche, nella fattispecie con le pretese del comune di usurpare i beni e i diritti ecclesiastici attraverso norme statutarie lesive della libertà della chiesa; tant’è vero che la politica antiereticale degli imperatori e dei papi, non venne condivisa dal comune che, geloso della propria autonomia, era propenso a mostrarsi tollerante verso una presenza eterodossa, che non era malvista né dal popolo né dai nobili.
A riprova di questo: quando negli anni venti del Duecento, il preposto della canonica riminese, Aldebrando, fece una violenta predica denunciando l’indebita appropriazione dei diritti sul porto e su una parte antistante la canonica da parte dei patari, scatenò negli uditori (che non dovevano essere tutti eretici!) una reazione così violenta da costringerlo a scappare, nascondersi nel campanile e fuggire dalla città. Trovata accoglienza a Fossombrone diventò poi vescovo di quella città.
La predicazione di sant’Antonio
Meglio andò negli stessi anni ad Antonio da Padova, che, lasciando da parte invettive e ricorsi ai decretali, attraverso un più sereno confronto verbale (e qualche aiuto dall’Alto), riuscì a far convertire una non piccola folla di patari e in particolare l’ “eresiarca” Bonvillo. Fatto clamoroso, perché metteva in crisi i “perfetti” e i credenti, che lo consideravano una guida spirituale.
Il rione pataro venne distrutto nel 1248. Forse a seguito di uno dei tanti tumulti politici o probabilmente per opera di Malatesta della Penna, di ritorno da un pellegrinaggio a Gerusalemme. Come scopo non secondario il Malatesta avrà avuto anche quello di arginare la potenza dei suoi avversari politici – in primis i Parcitade -, che sostenevano e proteggevano gli eretici.
Ma i patari continuarono la loro presenza, anche se più nascosta, a Rimini. La città sarà anzi il rifugio degli ultimi catari dell’Italia settentrionale, dispersi dopo l’assalto a Sirmione (1276) e l’immane rogo nell’arena di Verona, dove ne morirono duecento (1278).
L’inquisizione e il Tractatus de hereticis
Contro gli eretici a partire dal 1259 inizia l’attività dei tribunali dell’inquisizione francescana, affiancati e sostenuti dalla famiglia guelfa dei Malatesta. Ma anche il lavoro dei tribunali ebbe molti intralci provenienti non solo dalla società civile, ma anche da vasta parte del clero, come si ricava dalla sottile casistica procedurale e processuale che i giudici dovettero dipanare e che diede materia al più celebre manuale inquisitoriale del Medioevo, il Tractatus de hereticis, scritto nel 1330 dal riminese Zanchino Ugolini.
Gli ostacoli al tribunale dell’inquisizione avranno termine intorno al 1290, quando anche il comune si schiererà dalla parte guelfa e per “ricompensare” i Malatesta del loro impegno anti ereticale acquisterà i beni che la credente patara Mirabella da Faenza possedeva nella zona del Gattolo, per consentire la costruzione del loro palazzo.
Un clima di tensione politica
Le resistenze e i tumulti che si verificarono durante la lotta contro gli eretici patari sono solo un aspetto del clima di tensione che visse la città nella prima metà del XIII secolo, poiché le conflittualità già presenti tra le realtà locali si inasprirono dal riaccendersi della contesa tra Impero e Papato. Il papa Innocenzo III (1198-1216), infatti, aveva dato vita ad una politica che mirava a costituire un potere temporale centralizzante, politica perseguita con tenacia dai suoi successori; sull’altra sponda Federico II (che pure aveva avuto come tutore Innocenzo III), iniziò una decisa politica antipapale, con l’obiettivo di rafforzare il potere imperiale. Le sue pressioni sulle istituzioni comunali e la sua presenza a Rimini, dove – sembra – fece costruire parte delle mura a difesa della città, inasprirono il contenzioso tra comune e vescovo, aggravato, oltre che dal comportamento verso gli eretici, dalla volontà del comune di estendere il controllo sul contado, il che procurava gravi danni ai beni e ai diritti della chiesa, oltre che mancate riscossioni di decime.
L’emergere dei guelfi Malatesta
Anche dopo la morte di Federico II (1250) e la fine della dinastia Sveva continuarono le tensioni all’interno del comune, che vide la lotta tra le fazioni dei nobili, i guelfi Malatesta contro i ghibellini Parcitade, Omodei e Malacerri e la spregiudicata politica di Malatesta da Verucchio, nelle cui mani la carica di podestà del comune divenne sempre più uno strumento amministrativo per avviare l’affermazione del dominio signorile del suo casato. Senza che cessassero le litigiosità e il contenzioso giudiziario tra comune e vescovo per il controllo dei numerosi castelli del contado.
Il centralismo papale
Anche sul versante dei rapporti con il potere dei papi nel temporale c’era più di un motivo di tensione, poiché il centralismo pontificio tendeva a sostituirsi all’elettorato locale per designare vescovi forestieri, con mandati brevi e funzioni prevalentemente amministrative provocando una frattura tra vescovo e fedeli. Inoltre, dopo che nel 1278 il papato assunse direttamente i diritti sovrani sul territorio di Rimini e della Romagna, l’avvicendamento di rettori e legati papali spesso inesperti e il pesante fiscalismo finirono per creare un forte disagio tra il clero cittadino e all’interno dello stesso partito guelfo. Tra il 1290 e il 1292 papa Niccolò IV impose pesanti decime alle chiese della diocesi per finanziare la campagna militare contro gli Aragonesi, volta a restituire il possesso della Sicilia agli Angioini, sudditi del papato. I registri che riportano il rendiconto delle contribuzioni ci dicono di una Chiesa molto diffusa sul territorio (vengono censiti 130 enti religiosi) che, nonostante tutto, ha ancora una forte capacità contributiva, ma ci dicono anche che sia nella Canonica della cattedrale che in quelle del contado le regole della vita in comune non vengono più osservate.
Clero secolare in difficoltà
In questo contesto il clero secolare appare in difficoltà: non solo fatica a estirpare l’eresia catara, ma vede languire il culto dei santi; e soffre per assenza di vocazioni, come testimonia la ricordata vicenda del beato Aldebrando che dalla canonica ravennate di Santa Maria in Porto era stato chiamato a fare il preposto del Capitolo della cattedrale perché mancavano i prelati. Anche la cattedrale di Santa Colomba, nonostante il restauro della sacrestia voluto nel 1282, a spese del comune, dal podestà Malatesta, manifesta i primi segni di declino e inizia a perdere importanza a vantaggio dei palazzi del potere civile (l’Arengo prima, il castello malatestiano poi). Come pure è in lento declino il monastero di San Gaudenzio, a vantaggio del monastero di San Giuliano, portatore di nuovi valori civici per la presenza vivace di marinai, pescatori e mercanti. (5 – continua)
Cinzia Montevecchi