La vita della Chiesa non è fuori dal mondo, in una dimensione parallela e privilegiata dalla quale giudicare, approvando o condannando, ciò che gli uomini compiono, nel tentativo di realizzare con fatica i loro progetti.
Una storia nella storia
Questa verità ovvia, ma spesso messa in discussione da quanti sostengono che la Chiesa debba interessarsi solo dello “spirituale”, emerge con forza dalle pagine del secondo volume della <+nero>Storia della Chiesa di Rimini<+testo_band>, a cura di Augusto Vasina, che ricostruisce le vicende della comunità cristiana di Rimini dall’anno Mille fino alle soglie del Concilio di Trento: non è stato possibile, infatti, ricostruire la storia della Chiesa senza collocarla nel contesto storico e non è stato possibile illuminare il contesto storico senza farlo reagire con le posizioni della Chiesa.
Anni di cambiamenti radicali
Sono gli anni difficili che vedono cambiamenti radicali: il tramonto della società feudale; il sorgere e il declino delle istituzioni comunali; il sorgere e il declino della signoria dei Malatesta; il definitivo passaggio di Rimini e del suo contado nello Stato della Chiesa.
Gli anni difficili che vedono confrontarsi e più spesso scontrarsi all’interno dello stesso territorio le ragioni dell’impero e del papato, del comune e del vescovo, della città e del contado, delle nuove classi emergenti e della vecchia aristocrazia feudale.
Senza che sia chiarito il rapporto tra potere spirituale e potere temporale, la Chiesa nei suoi vertici più alti (papa, cardinali) sembra spesso perdere l’orientamento: al “secolo oscuro” seguono le lotte per la supremazia contro l’impero, al periodo avignonese segue lo scisma d’occidente…
Eppure la comunità cristiana di Rimini, a volte ricevendo l’aiuto dei poteri civili, a volte potendo contare solo sulle sue forze, ha saputo rispondere sempre alle sfide dei tempi senza perdersi per strada.
Tra le maglie del rigoroso sforzo filologico e della straordinaria quantità dei documenti presi in esame dagli autori di questo volume emerge sufficientemente chiaro lo sforzo della Chiesa nel suo insieme di mantenersi fedele alla chiamata. È vero che i documenti a disposizione non sono in grado di raccontare la fede, ma possono ben raccontare le “opere della fede”.
Riuscendo a districarsi, sia pure con una certa fatica e con qualche “errore”, nella poca chiarezza istituzionale dei tempi, mantenendo una sostanziale fedeltà alla Sede Apostolica di Roma, la Chiesa di Rimini dà prova di aver costantemente perseguito almeno due obiettivi.
L’impegno pastorale
Il primo è l’attenzione alla pastorale, nello sforzo di adeguare l’organizzazione interna e il linguaggio alle mutate condizioni dei tempi: ora attraverso il radicamento capillare sul territorio e la ristrutturazione delle pievi, ora attraverso la fondazione dei monasteri benedettini e la diffusione della spiritualità dell’ora et labora; ora attraverso l’accoglienza degli ordini mendicanti con la loro capacità di esortare a gesti concreti di conversione, di carità, di conciliazione, e di affermare il valore del creato e la dignità delle creature; ora affinando gli interessi culturali per mettersi in grado di iniziare un confronto con il pensiero elaborato all’interno delle Università; ora ricorrendo ai grandi cicli pittorici, la “Bibbia dei poveri”, per aiutare la comprensione di chi non aveva accesso alla cultura. Sempre proponendo i santi come modelli da imitare: testimoni della fede a costo della vita, eremiti, laici capaci di spendersi per gli altri nella “banalità” della vita di tutti i giorni. Sempre esortando alla preghiera. Non è un caso che i momenti di vivacità spirituale più intensa siano stati accompagnati dalla preghiera dei benedettini prima e degli ordini mendicanti poi e che di tutti i santi di questo periodo venga ammirata la straordinaria capacità di “perdersi” nella preghiera.
L’attenzione agli ultimi
Il secondo è l’attenzione agli ultimi. In assenza di uno “stato sociale” che potesse rimediare ai danni delle carestie, dei terremoti, delle pestilenze, oltre che delle guerre, nell’affermarsi di un’economia di mercato, che esigeva il ricorso alle monete anziché agli antichi scambi in natura, il divario tra ricchi e poveri era sempre più marcato e il numero dei poveri in straordinario aumento. Per loro si mobilitano, accantonando eventuali contenziosi giurisdizionali, laici, clero secolare e clero regolare. Per avere a disposizione il necessario si provvede ad una amministrazione rigorosa dei patrimoni che singoli o istituzioni affidano alla cura dei vescovi o dei conventi: sono talenti, risorse preziose del cui impiego va dato conto a Dio e agli uomini.
Per la città si moltiplicano gli “ospedali”, a volte vere case-famiglia, con non più di due o tre letti, per far fronte alle esigenze più diverse, dall’alloggio ai pellegrini, alle medicine per i poveri, ai sostegni per vedove e orfani, a case di riposo per anziani. Anche per questi si provvede ad una cura oculata dei beni a disposizione e, se è il caso, a ristrutturarli o accorparli.
Poiché, però, l’elemosina aiuta a “sopravvivere”, ma non a “vivere”, la carità fraterna “inventa” i Monti di Pietà, per dare credito a chi non può avere accesso al credito. Qualcosa di simile al moderno “micro credito”.
La ricerca di una fedeltà
E tutto questo in un costante e a volte sofferto atteggiamento di continua riconversione alla fedeltà del Vangelo. Più facile, forse, per i monaci, certo più difficile per il clero secolare e per i vescovi, perché più coinvolto coi poteri civili. Eppure anche tra i vescovi non sono mancate personalità di rilievo, che hanno cercato di armonizzare le varie componenti della diocesi e di coinvolgere nel processo di riforma anche il clero secolare. Ne sono testimonianza i cinque sinodi diocesani che si sono succeduti a partire dal 1303 e sono confluiti nel grande sinodo del 1477, convocato dal vescovo Coccapani (il primo di cui siano conservati i documenti), e i sinodi dei decenni successivi che hanno preparato la grande riforma del Concilio di Trento. (1- segue)
Cinzia Montevecchi