Più di settant’anni ci dividono dal celebre “Giudizio sul Duecento” con cui Roberto Longhi emise una condanna sull’arte di quel secolo, schiava, a suo parere, di una pittura bizantino-blacanica, sentita come barbara e immatura, lontana da una tradizione italiana che, in verità, al tempo si stava appena formando. Del XIII secolo si salvava a suo dire tutto ciò che era un preludio all’alba rinascimentale di Giotto e del trecento giottesco e toscano. Oggi il punto di vista su questo secolo è radicalmente mutato, e da tempo. E In realtà Duecento e Trecento non possono più essere separati, né la loro ispirazione bizantina può essere considerata un limite: l’arte costantinopolitana e balcanica era al tempo assai raffinata, colma di quella sapienza tecnica nell’arte del mosaico, dell’affresco, del minio e della tempera su tavola che seppe trasmettere alle maestranze italiche. Ed era un’arte colma sia di ascetismo cristiano sia di senso classico della misura.
Del Duecento, a Rimini non resta oggi che la figura femminile affrescata in San Michelino in Foro (nella foto un particolare) forse da un pittore umbro. San Michelino è una chiesa assai antica, appartenuta, nel XIII sec., anche ai Templari e ora inglobata in un condominio: da via IV Novembre s’intravvede giusto l’abside. La figura femminile, essenziale e ben più povera dell’arte bizantina coeva, potrebbe essere una santa non ancora identificata o, come mi venne da ipotizzare anni fa e come poi hanno scritto Giovanni Rimondini e Alessandra Peroni, una Madonna Annunciata che tiene in mano una matassina di lana. Nei vangeli apocrifi la Madre di Dio fila e tesse il velo del Tempio di Gerusalemme dietro cui si manifesta la presenza dell’Altissimo. Per i Padri lo Spirito Santo tesse nel ventre di Maria o la tunica regale o l’abito immacolato del Cristo. Quella matassa è il simbolo dell’incarnazione: come dietro il velo del Tempio vi è Dio, così nella carne di Cristo si nasconde la pienezza della divinità. È la Lettera agli Ebrei a dirci che gli iniziati ai misteri di Cristo entrano nel Santuario attraverso un velo più ampio e più perfetto non tessuto da mani umane, cioè la carne di Cristo. E non a caso i Vangeli insegnano che quando Gesù morì in croce il velo si lacerò.
Ecco perché i crocifissi del Duecento, anche quelli emiliano-romagnoli (ce n’era uno molto bello a Villa Verucchio poi rubato), portano dietro il legno del patibolo un grande, prezioso drappo a motivi cruciformi; simbolo di quel velo che nascondeva il santuario ebraico e che è ora tutt’uno con il corpo di Cristo. Non a caso le croci dipinte si trovavano appese all’arco trionfale, che conduce all’altare dove si celebra il Sacrificio della messa, o, nelle chiese monastiche, erano infissi al culmine del transetto, un divisorio, simile alle iconostasi bizantine, che divide il luogo consacrato a sacerdoti e monaci dalla navata dedicata ai fedeli comuni. Anche in tal caso il transetto custodisce il santuario dove si realizza il sacramento eucaristico. Le croci più piccole, infine, come quelle che si trovano a Longiano o a San Vittore di Cesena, erano destinate all’altare stesso, come le pale o i polittici: un prolungamento dell’ara del Sacrificio divino.
A Rimini il Duecento è scomparso, restano invece i grandi maestri emiliano-romagnoli: il commovente anonimo di Faenza e quello geniale di Forlì, gli strepitosi miniatori bolognesi, quelli immaginosi di Imola o Bagnacavallo, il maestro dei crocifissi francescani, il misterioso frescante italo-orientale del Battistero di Parma, e, prima di Giotto, due grandi toscani ancora “bizantini”: Giunta Pisano e Cimabue.
Alessandro Giovanardi