È una visione distorta quella che, noi comuni italiani, abbiamo della criminalità organizzata. Storti sono i personaggi disegnati dalla letteratura e dalla fiction, dove i buoni stanno da una parte i cattivi dall’altra e qualche talpa in mezzo. Un insieme di pupi che male interpretano uno stato di fatto. Si è corso il rischio, a volte, che i cattivi – come tutti i cattivi che si rispettino – diventassero fascinosi ai nostri occhi, accattivanti, a tratti belli e invidiabili. Non si può non citare il clamore e il dibattito scatenatosi intorno al Capo dei Capi, la fiction del 2007 targata Taodue dove un bel giovanotto di nome Claudio Gioè interpretava un Totò Riina controverso, tenero e sentimentale verso la fidanzata, in seguito divenuta moglie, Ninetta Bagarella sorella di un boss di analoga caratura di Totò u curtu (totò il basso, come veniva chiamato il boss tra gli amici criminali). Un rischio, quello di confondere le idee, che ancora oggi scomoda le parole di conoscitori del fenomeno del calibro di Piergiorgio Morosini, giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Palermo. Il giudice cattolichino, nel promuovere il suo nuovo libro Attentato alla giustizia. Magistrati, mafie e impunità, a Rimini, ha provato a raccontare questi meccanismi di stortura perché solo raccontando le cose nel modo giusto si può far conoscere il fenomeno correttamente. Solo conoscendolo lo si può individuare e, perché no, denunciare. E alza il tiro, nello stendere il suo pensiero: “Se io ho una visione riduttiva del fenomeno anche a livello normativo non potrò dotarmi degli strumenti giusti per combatterla. Le lacune nel discorso pubblico possono trasformarsi in lacune normative e noi non possiamo accettarlo. E poi, un’ultima cosa: le mafie fanno cultura popolare. Quindi fare contrasto alle mafie vuol dire produrre informazione”. Morosini è chiaro nei suoi intenti. Il libro che ha scritto è un manuale di informazione ma anche di azione. In 283 pagine cita fatti, crea collegamenti storici, individua codici e chiavi di lettura, fornisce strumenti e dà indicazioni per il futuro.
Ma si può ridurre la complessità fenomenologica della criminalità organizzata ad un insieme di bozzi e storture? Certo che no anche se le parole possono fare la loro parte.
Ci faccia un esempio che ci riguardi da vicino, dott. Morosini.
“Penso semplicemente al termine infiltrazione che tanto abbiamo utilizzato in quest’ultimo periodo. La parola infiltrazione fa pensare che qualcuno o qualcosa sia arrivato dall’esterno inserendosi in un corpo sano, che in questo caso dovrebbe essere la nostra economia. Il sud che viene a contaminare il nord. Ma questo non è del tutto vero. Ci sono casi acclarati di imprenditori di aziende settentrionali che si sono messi in comunicazione con faccendieri del meridione per smaltire i rifiuti speciali delle loro aziende. Smaltiscono a costi pari a un quarto rispetto a quelli di mercato. Pensate che questi imprenditori non sappiano che i loro scarti vanno, in ultimo, ad avvelenare i territori del sud Italia? Chi infiltra chi?”.
Negli ultimi anni abbiamo, giornalisti e non, parlato della Riviera e di Rimini come di una lavanderia di denaro sporco per le cosche criminali. Anche in questo caso il modo in cui leggere il fenomeno è: il sud che arriva al nord e ricicla? Oppure no? Come si sviluppano queste dinamiche?
“Le dinamiche sono complesse. Sono presenti delle attività di commistione preoccupanti in questo territorio. Parlo, per esempio, del caso di quell’imprenditore riccionese (Flavio Pelliccioni, ndr) entrato in contatto con i Casalesi per i quali doveva procurare delle fideiussioni affinché queste persone aprissero dei supermercati a Casal di Principe. Questo vuol dire che c’erano dei contatti tra i due versanti dello stivale e anche con personaggi importanti della criminalità campana. Ma questa non è una novità. Mi ricordo che quando arrivai a Palermo nel 1993 venni coinvolto in un caso in cui un’azienda della zona (Ferruzzi) portava il suo cemento in Sicilia. Non è impensabile che un giorno dal nord dovessero ricambiare il favore. Queste sono dinamiche palesi nei sistemi della criminalità organizzata”.
Partiamo dal presupposto che tutti i fronti sono buoni, ma se dovessimo scegliere: su quale fronte la possiamo combattere, o semplicemente fiaccare, la mafia?
“Non ho dubbi: la corruzione. Ed è questo un mio cruccio. Era il 1999 quando a Strasburgo l’Italia firmò la Convenzione penale del Consiglio d’Europa sulla corruzione. Da allora nessun governo, sia stato esso di destra o di sinistra, ha mai tradotto quella convenzione in una legge dello Stato Italiano. Adesso se ne discute ma siamo in ritardo. Mi preme dare solo un numero. In Italia la corruzione coincide con un terzo sull’Irpef che ogni cittadino paga annualmente. Credo che una buona legge contro la corruzione sarebbe un ottimo punto di partenza per sconfiggere le mafie”.
Nell’ultimo periodo, Rimini e provincia si sono dotati di strumenti di protezione e osservazione di possibili infiltrazioni mafiose nell’economia. Prima quasi si negava l’esistenza delle mafie. Come valuta tutto questo?
“Lo valuto positivamente. È importante che ad uno stesso tavolo si mettano a sedere le istituzioni ma anche i lavoratori, i sindacati e altri soggetti. L’osservatorio è una struttura che può portare ad una condivisione e migliorare la conoscenza sul fenomeno. È un passo avanti, poi, anche perché è una presa di posizione forte nei confronti della Provincia anche nella’idea che ci si è fatti del nostro territorio”.
Angela De Rubeis