Ci eravamo accorti della parlata da romagnolo un po’ buffone, come quella di Valentino, lo stesso modo di fare da ragazzino mai cresciuto, una classe nella guida – da affinare certo – che mostrava un potenziale da campione vero. Aldilà delle cadute senza fine, dei sorpassi al limite e delle lamentele degli altri piloti (Pedrosa e Lorenzo in pole position) per quella guida troppo spericolata.
Forse non avevamo capito che il “folletto“ Marco Simoncelli era un personaggio a tutto tondo anche senza un mondiale della MotoGp in bacheca. La sua tragica fine, entrata in diretta nelle vite di tanti, ha amplificato dolore, rabbia e domande.
Non era un santo, il Sic (per via dell’abbreviazione del cognome operata dalla grafica tv), ma nonostante pieghe e manetta, con un Mondiale 250 nella mano e due pole position in MotoGp nell’altra, per tutti era rimasto Marco.
Gli ultimi saluti, la camera ardente, il popolo che gli si è stretto attorno: quante belle immagini. Il silenzio di Coriano, ad esempio: un paese invaso da migliaia di persone eppure completamente avvolto nel silenzio, rispettoso e composto. La dignità della famiglia nel dolore. Le testimonianze sul Sic, che dipingono l’uomo. Le parole ritrovate sul libro del PuntoGiovane di Riccione, ad esempio. Qui, all’età di 18 anni, Marco aveva partecipato a una settimana di convivenza con i suoi compagni di liceo. E aveva scritto: <+cors>“Sono stato il «folletto» <+testo_band>(così si chiama il ragazzo che prega per un altro durante la convivenza, ndr)<+cors> più scandaloso che la storia ricordi. Non ti prometto che pregherò per te in futuro, perché sicuramente me ne dimenticherei. Però lo farò questa sera, prima di andare a letto e cercherò di fare in modo che la mia preghiera valga anche per tutte le volte che non la dirò”<+testo_band>.
Oltre 6 milioni di spettatori, 46% di share: le esequie, trasmesse in diretta da Rai1 e senza interruzioni pubblicitarie, hanno “bucato” il video, senza contare le migliaia di persone che hanno seguito la Messa in streaming. “Ero curioso per le parole di circostanza che il Vescovo avrebbe pronunciato in un contesto cosi difficile come quello del funerale. Le ho lette. Mi hanno dato una grande forza nella consapevolezza che non sarò mai solo”. Mirco di San Mauro Pascoli era uno dei tanti che attendeva al varco mons. Lambiasi. È diventato uno dei molti che hanno sentito il bisogno di lasciare sul web le proprie impressioni su un’omelia di risurrezione e misericordia che ha squarciato la chiesa di Coriano. Marisa confessa: “Custodisco con tenerezza l’immagine di Gesù che nel momento della morte sarà lì ad afferrarmi per portarmi con lui. Quasi quasi vorrei che fosse ora…”. Rilancia Maria: “Ho trovato gesti veri, parole che hanno superato le facili retoriche teologiche, nessun indugiare su una «prossimità» che diventa melassa. L’omelia ha restituito Cristo che è Storia, carne, che si è fatto sofferenza, speranza e resurrezione”. Sono spuntati dietro alla curva del dolore da tutta Italia, i messaggi. Le parole del Vescovo “sono state di speranza e di amore che spero (e prego) portino frutti abbondanti nei cuori di chi le ha ascoltate” è il commento di Stefano da Genova. “Abbiamo sofferto ma siamo stati consolati: la morte di un giovane sconvolge la nostra umanità, – dicono Mauro e Andreina da Narni – ma Gesù che è in noi ci fa accogliere serenamente il mistero, come il Vescovo ci ha ricordato scomponendo la parola: a Dio!”. È stato l’ultimo passaggio dell’omelia: “Addio, Marco. È una parola scomposta dal dolore, ricomposta dalla speranza: a-Dio!”.
Chi ha rintracciato tre elementi importanti di comunicazione, pastorale ed ecclesiale, è il direttore dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi di Fano. “Il Vescovo ha usato tre codice importanti nella comunicazione, chiari, nitidi e puliti”: il codice dell’onestà (“Non posso cavarmela con risposte preconfenzionate” ha confessato mons. Lambiasi), il codice della verità (“il cuore del cristianesimo senza perdersi in frasi di eccelesialese e moraliste”) e il codice della compagnia (“una chiesa semplice, senza orpelli, asciutta e diretta al cuore: così si fa”).
C’è anche chi ha mostrato pollice verso. Giancarlo Bonomo, ad esempio, non ha gradito il “no a Vasco Rossi di cantare durante la cerimonia funebre di Simoncelli. Non sono un fan di Vasco, ma ritengo ingiusta la decisione del Vescovo”. Come ci sono norme da rispettare in pista, lo stesso vale per la liturgia, che prevede canti adatti ad accompagnare i gesti e le parole di un Dio che si fa uomo per l’uomo. In ogni caso, la decisione di far ascoltare Siamo solo noi del Vasco fuori di chiesa, è stata presa di comune accordo con la famiglia, non è certo stato un colpo di mano di un Vescovo che il Blasco forse non lo ascolta quotidianamente ma lo conosce di certo: basta leggere la sua ultima Lettera Pastorale e le citazioni del cantante di Zocca per averne un’intonata conferma.
Qualcun’altro, come Alfredo da Roma, ha deplorato “comportamenti gravemente irrispettosi del luogo sacro, tipo portare una moto in Chiesa e addirittura accenderne il motore”. Alfredo è stato portato fuori pista. Sul podio dell’errore salgono Ansa e La Stampa. La prima è la più autorevole agenzia di stampa italiana, la seconda è una storica testata quotidiana. Massimo Gramellini, una delle penne più forbite, in prima pagina si è impennato alla chiosa finale: “confesso che quando Valentino Rossi ha fatto rombare la Honda numero 58 in mezzo alla navata centrale della chiesa, le lacrime sono franate a valle senza incontrare resistenza”. Peccato che Valentino sia rimasto al suo posto, defilato, e la moto di Sic non abbia emesso alcun suono: Gramellini forse si era distratto davanti alla tv o forse si è fatto trarre in inganno dal dispaccio dell’Ansa che citava la stessa inesistente scena. Al confronto, l’errore del più letto quotidiano italiano (la rosea Gazzetta) che ha trasformato monsignor Francesco Lambiasi in “Vescovo Franco Lambisi” è veniale.
Meglio tornare all’omelia e alla domanda inesorabile che non ha eluso. “Perché Marco si è schiantato domenica scorsa sull’asfalto dell’autodromo di Sepang? Ci ripetiamo, instancabili: «è la volontà di Dio». Il mio animo si ribella all’idea volgare di un Dio che si autodenomina «amante della vita», che mi si rivela come il Dio che «ha creato l’uomo per l’immortalità» e poi si apposta dietro la curva per sorprendermi con un colpo gobbo o una vile rappresaglia. Permettetemi di ridire sottovoce a me e a voi qual è questa benedetta volontà di Dio, con le parole pronunciate un giorno da suo Figlio: «Questa è la volontà di colui che mi ha mandato. – si legge in Gv 6,39 – Che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti nell’ultimo giorno»”.
Niente è perduto, dunque, con o senza moto. Dio salva e lo fa attraverso Gesù Cristo. Il Figlio è sempre là, all’imbocco del tunnel della morte, pronto per afferrarci e portarci a godere la gioia senza più se e senza più ma. A piedi, distesi o sue due ruote. Forse il popolo che ancora continua ad affollare Coriano e a riempire la chiesa, una sera dopo l’altra, con il suo silenzio e la sua preghiera (biascicata o gridata all’indirizzo di Dio), implora di salire in sella a quell’amore più incredibile che ha definitivamente sconfitto la morte con la risurrezione.
Paolo Guiducci