Il lavoro come realizzazione della stessa natura dell’uomo. Un concetto oggi tutt’altro che scontato in una società dove si tende a perdere di vista in questo ambito la persona come soggetto attivo e, al tempo stesso, scopo. Sull’esigenza di “Educare al lavoro dignitoso” si è concentrato il convegno dei direttori diocesani della pastorale sociale, all’hotel Continental di Rimini dal 25 al 28 ottobre.
“Oggi l’Italia affonda perché manca di speranza, non di soldi o mezzi” ha detto a Rimini >mons. Giancarlo Maria Bregantini, presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro, la giustizia e la pace. Aggiungendo che la paura e l’incapacità di “guardare l’infinito oltre la siepe” sono il rischio più grande che va oggi superato insieme al male di una politica “che si è allontanata dai veri problemi della gente”. Mons. Bregantini ha sottolineato anche le tre parole che possono ridare speranza e dignità al lavoro. La prima, “intraprendere”, parola chiave della Settimana Sociale di Reggio Calabria, “più che investire sottolinea una tensione positiva”: la capacità di “andare oltre” e recuperare “speranza, ottimismo e fiducia”, perché “la complessità del presente non deve essere una scusa per non fare”. La seconda, “includere”, si riferisce all’integrazione degli immigrati regolari, “ai quali va data possibilità di votare” e che “vanno sostenuti nella misura in cui creano impresa e lavoro”. La terza necessità è quella di “accompagnare i giovani” in un’epoca in cui la precarietà “interessa allo stesso modo il Nord e il Sud del Paese”.
Diritto per tutti “a un giusto salario” e “alla sicurezza del lavoratore e della sua famiglia” sono due requisiti indispensabili per un lavoro “non solo utile ma degno e confacente alla dignità dell’uomo”, secondo Evandro Botto, preside del Centro di Ateneo per la dottrina sociale della Chiesa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. A Rimini Botto ha accennato alla “cultura del lavoro minimo” che oggi guarda all’occupazione come ad un “peso inevitabile e da circoscrivere a spazi sempre più ristretti a favore di un tempo libero vissuto puramente come pratica del gioco, del lusso e del benessere” contrapponendo ad essa i concetti da sempre sostenuti dal magistero sociale della Chiesa. Un lavoro “come bene” che, come dice il Compendio della dottrina sociale della Chiesa, deve “valere in ogni sua forma, e qui sta il superamento della concezione cristiana del lavoro rispetto alla schiavitù degli antichi” perché “è l’uomo il soggetto e lo scopo”.
La pastorale sociale in Italia. In quarant’anni di pastorale sociale in Italia (il convegno riminese è stato anche l’occasione per tracciarne un bilancio) le tematiche confluite nelle Encicliche sociali come la “Mater et magistra” e la “Laborem exercens” (di cui ricorrono rispettivamente il 50° e 30° anniversario) sono sempre state una priorità. Mons. Angelo Casile, direttore dell’Ufficio Cei per i problemi sociali e il lavoro, riferendosi a questi quattro decenni, ha parlato di un “solco ben tracciato che può aiutare a recuperare fiducia e speranza”.
Fede e ragione. Il lavoro, nel suo essere dignitoso, può diventare anche sede “di un dialogo profondo e di una collaborazione proficua tra ragione e fede”. Quella stessa collaborazione che auspica l’enciclica di Benedetto XVI “Caritas in Veritate”, ricordata a Rimini da don Domenico Dal Molin, direttore del Centro nazionale vocazioni. “Talvolta la sensazione, anche nel lavoro, è che i prodotti del suo ingegno siano in rotta di collisione con quello che è il mondo che il Signore spera per tutti noi”. Il riferimento è al lavoro oggi troppo spesso limitato ad una pura “dimensione di autosufficienza” in un contesto in cui, ha sottolineato don Dal Molin, “l’uomo viene considerato unico artefice del proprio destino”. Eppure anche nel lavoro è possibile trovare quella vocazione che, intesa come “chiamata di senso”, è “trasversale a tutta l’attività pastorale”. Citando le stesse parole pronunciate dal card. Bagnasco sull’importanza di “vivere una vocazione in una società decente”, Dal Molin ha concluso sulla possibilità di adottare “uno sguardo nuovo anche in una realtà che oggi ha più motivi per essere guardata con preoccupazione”. Solo così, recuperando una prospettiva, “è possibile riscoprire nel lavoro un modo per andare oltre lo spaesamento attuale”.
Alessandra Leardini