Suor Carolina Iavazzo: nel segno di don Pino Puglisi. Riflessioni sulla legalità oggi. Il tema della giustizia e della testimonianza fino al sangue sono stati il cuore dell’intervento di questa suora che ha vissuto alcuni anni collaborando con don Pino nel quartiere Brancaccio di Palermo.
La testimonianza organizzata dalla parrocchia del Crocifisso è nata come proposta per i giovani, aperta a tutta la comunità. Presenti ragazzi scout, animatori parrocchiali, catechisti, educatori e genitori desiderosi di avere consigli da un’educatrice che ha avuto come maestro un uomo morto proprio a causa del grande amore per i “suoi” ragazzi, che ha voluto strappare alla mafia, all’ignoranza, alla criminalità.
Suor Carolina ha raccontato la missione di don Pino nel quartiere più malfamato di Palermo, poi la serata è continuata in un dialogo con i presenti.
Suor Carolina, chi era don Pino?
“Don Pino era di umili origini. Gli piaceva essere palermitano e ne era orgoglioso. Parlava anche in dialetto, tanto era legato alla sua terra. I suoi punti di riferimento erano l’Eucarestia, la Parola di Dio e l’Adorazione eucaristica. Credeva nella sua missione di sacerdote. L’altare non era per lui un rifugio ove nascondersi, ma un trampolino per andare incontro ai fratelli, incontro ai giovani. Amava Dio e il prossimo”.
Ci racconta di come Padre Pino Puglisi è arrivato nel quartiere Brancaccio di Palermo?
“Il Cardinale Pappalardo era preoccupato perché non sapeva chi mandare come parroco in questo tremendo quartiere e don Pino si offrì per iniziare un’opera pastorale proprio lì dove tutti i sacerdoti avevano paura di operare per il fatto che la mafia la faceva da padrona e gli abitanti erano solo vittime innocenti dei potenti”.
Quale fu la sua opera pastorale appena arrivato?
“Per un anno don Pino osserva la situazione. Scopre fatti orribili come per esempio un vecchietto buttato senza vita in un cassonetto dell’immondizia, bambini che vivono per strada dalla mattina alla sera e giovani analfabeti che avevano uno scantinato ove nascondevano armi e droga. Scantinato che usavano per violentare minori, squartare cani e vedere come erano fatti. Scopre un quartiere in cui non c’è nulla, né parchi, né monumenti, né segni di cultura e civiltà. Perché? Perché la mafia vuole questo. Se c’è cultura, la gente si ribella, ma se c’è ignoranza si accetta tutto, si è deboli ed è lì che opera la mafia, perché vuole comandare. Meno sai e meno puoi contrastare. La mafia non dà niente, solo miseria e ignoranza”.
Come reagì don Puglisi?
“Vedendo questa situazione, iniziò a chiedersi: da chi iniziamo? Voglio iniziare dai giovani, perché sono aperti al futuro, hanno voglia di agire. Così organizzò corsi serali per alfabetizzarli, scuole al mattino per i bambini. Voleva creare un centro per raccogliere i giovani e per questo comprò un locale ove il pomeriggio aiutavamo i bambini nei compiti, organizzavamo tornei di calcetto e attività varie. All’inizio i bambini venivano entrando dalla finestra, facendo a botte per chi entrava per primo, spinte, pugni e calci. Piano piano impararono a entrare dalla porta e a chiedere le cose dicendo ‘per favore’ e riceverle con un ‘grazie’. Un lavoro che si è fatto piano piano, a piccoli passi, con piccoli progressi ogni giorno, attraverso l’amore che don Pino aveva per i suoi ragazzi”.
Perché don Pino fu ucciso dalla mafia?
“La mafia non vuole persone istruite, perché iniziano a ribellarsi alle ingiustizie. Dove c’è istruzione non ci può essere mafia. Abbiamo scoperto più tardi che tra i ragazzi c’era una spia. Di giorno stava con noi e la sera andava a riferire tutto ai boss della mafia. Dopo la morte del giudice Falcone don Pino organizzò una fiaccolata ed ebbe subito la risposta: bruciarono il furgone di fronte alla porta della chiesa, iniziarono a picchiarlo, minacciarlo, volevano che stesse zitto, che si chiudesse in chiesa. L’opera iniziava a dare i suoi frutti e la mafia lo picchiava, ma lui andava avanti: terapia d’urto con chi lo contrastava. Il 29 giugno, giorno di San Pietro e Paolo, appiccarono fuoco alle porte di casa dei nostri collaboratori e lui si arrabbiò così tanto che durante l’omelia della domenica successiva, furibondo, urla: «Venite fuori, basta nascondervi. Abbiate il coraggio e non nascondetevi dietro le armi, venite alla luce del sole» (da qui il titolo del film). Io, dopo la messa, gli dissi di stare attento, aveva proprio esagerato e adesso si doveva aspettare qualsiasi cosa. Ma lui mi rispose: «Più che uccidermi non possono fare. Possono uccidere il mio corpo, ma non l’anima». La morte l’ha trovato vivo ed è rimasto vivo in noi, nei suoi ragazzi, nel quartiere e anche la fine del film lo testimonia: il ragazzino che piange, vede don Pino a sedere sulle panche della chiesa e lo saluta sorridente”.
Dopo un’esperienza così forte, cosa può dire ai giovani?
“Voglio chiedere loro: da che parte state? Non basta non fare il male, l’importante è fare il bene, è urgente fare il bene, dobbiamo sporcarci le mani. Ci sono tre strade o strisce: la striscia bianca, quella dei buoni. La striscia nera, quella dei cattivi. Poi c’è la più pericolosa che è la striscia grigia, quella delle persone mediocri, quelle che non esprimono mai un parere, non prendono posizione su niente. Cadono un po’ di qua e un po’ di là e non si impegnano. I neri sono meglio dei grigi perché almeno prendono una posizione, hanno più coraggio di certi cristiani che sono nella striscia grigia, striscia della morte che però non ci deve appartenere. Non abbiate paura. Dopo la sua morte i suoi amici del quartiere hanno voluto mettere una targa sulla porta di casa sua: ‘La mafia è forte, ma Dio è potente’. Ai giovani don Pino ha insegnato a camminare a testa alta. È morto perché i giovani avessero la vita. Infatti al cimitero sopra la sua tomba c’è un vangelo in marmo che riporta la frase del Vangelo di Giovanni : ‘Non c’è amore più grande di chi dà la vita per i suoi amici’. Ha insegnato ai giovani a dire no alla mafia, cioè ai non valori”.
Dopo di lui chi è diventato parroco nel quartiere Brancaccio?
“Un sacerdote del tutto diverso. Si propose dopo il suo funerale. Quando arrivò ci fu un grande giro di soldi e io proposi di usarli per ingrandire e sistemare il centro giovani, ma lui pensò bene di farci allontanare per farci tacere dicendo che non poteva avere il peso di questo prete sulle spalle. Don Pino un peso! Dopo la sua morte per noi suore fu un anno tremendo in cui rimanemmo sole. Allora ci chiedevamo: ma Dio dov’è? Qualcuno doveva raccogliere la sua eredità! Se nel quartiere Brancaccio non continuò la sua opera, i frutti di speranza seminati da don Pino si vedono ora in tutto il sud. Attenzione perché la mafia non è solo a Palermo. La mafia è ovunque, dobbiamo vigilare. Ci sono atteggiamenti mafiosi in ognuno di noi: non sappiamo perdonare, etichettiamo l’altro, vogliamo prevalere, non agiamo con amore, ecc.”
Ci può raccontare qualche fatto accaduto durante la sua opera educativa?
“Io insegno in una scuola elementare nella Locride. A volte qualcuno dei più grandicelli mi sfida. Una volta uno mi dice di buttarsi dalla finestra. Se li voglio educare non devo avere paura e devo scendere al loro modo di vivere. Così gli ho detto che per me si poteva buttare e che non avevo paura della sua minaccia. Non ci ha più provato. Un giorno un altro ragazzino mi ha sbattuto sulla cattedra uno zaino e aprendolo ne ha tolto una pistola. Mi sono fatta vedere sicura di me (sotto sotto avevo molta paura). Gli ho detto, sorridendo, di metterla via, poi l’ho obbligato a nasconderla con una minaccia. Piano piano ci sono riuscita e l’ha messa a posto. Mi ha chiesto di non dirlo al preside e io non l’ho detto a nessuno. Se lo avessi fatto, avrei sicuramente perso quel ragazzino, invece ora ho la sua fiducia. Mi segue e mi aiuta. Non bisogna avere paura di chi educhiamo, non dobbiamo temere di dire dei no, di dare delle regole. Nella loro ribellione le regole le desiderano, capiscono che esigendo un certo comportamento noi li amiamo. Se li lasciamo fare ciò che vogliono, si sentono abbandonati e non amati”.
Per concludere, cosa ci lascia?
“Chiedo che questa mia testimonianza possa toccare la coscienza di tutti voi, così che don Pino non sia morto invano. Don Pino è morto per tutti noi. Vigiliamo sui giovani con regole, stiamo loro vicini perché si sentano amati anche attraverso i nostri no. Devono vedere persone sicure che agiscono per amore. Allora crescono forti. Don Pino voleva questo.”
Isabella Rinaldi