Da impenitente lettore di Storia e di storie (soltanto per un difetto genetico documentabile “su per li rami”), ho molto apprezzato il recente lavoro di Maurizio Casadei dedicato alla nascita del Comune di Monte Colombo. E soprattutto segnalo, con particolare ammirazione, il primo paragrafo del primo capitolo. Dove l’autore indirizza la nostra attenzione verso un problema che non riguarda soltanto il territorio di Monte Colombo, ma si pone come generale rispetto all’intera Romagna. Spiega tutto il titoletto dello stesso paragrafo: “Le conseguenze dell’ingresso nello Stato pontificio”.
Casadei scrive che l’inserimento delle comunità locali, sia le cittadine sia le più piccole dei contadi, all’interno dell’organizzazione politica che faceva capo a Roma, provoca uno svuotamento di sostanza delle singole realtà periferiche.
Questo aspetto costituisce una seria questione di fondo, esaminata con cura dall’autore: “le comunità persero la capacità di difendere l’autonomia goduta al tempo delle libertà comunali”, ma nello stesso tempo non si assiste ad un rafforzamento dello Stato centrale.
Questo aspetto è il punto centrale di una situazione di complessa crisi che è contemporaneamente politica, economica e quindi pure sociale. La crisi danneggia sia tutto il territorio pontificio nel suo complesso, sia le singole realtà periferiche.
Nelle quali chi governa non è espressione delle comunità amministrate, ma è scelto fuori di esse, per decisione o di Roma o del cardinal legato. Questi “gruppi di potere” da cui dipendono tutte le decisioni, come osserva giustamente Casadei, erano i “meno adatti a gestire le esigenze locali”. Essi volevano soltanto far valere gli antichi privilegi. Dai quali derivavano le loro fortune famigliari e le conseguenti scelte politiche relative alle loro persone.
Al proposito, Casadei richiama uno studio ormai classico, apparso nel 1977, a firma di Giovanni Tocci, e dedicato alle “Legazioni di Romagna e di Ferrara dal XVI al XVIII secolo” (in Storia dell’Emilia Romagna, Bologna, vol. II). Qui si legge che la Legazione “fu tutt’al più l’espressione del centralismo velleitario, e perciò autolesionistico della Curia, le cui probabilità di riuscita erano affidate – in una concezione tutta personalistica del potere – alle abilità o alla disponibilità di questo o quel cardinal legato”.
Nelle pagine di Tocci troviamo la citazione di un illustre studioso, Augusto Vasina, le cui parole sul tema meritano un ricordo, perché vi appare anche la città di Rimini relativamente al sec. XVI. Il sovrapporsi alla realtà locale già compromessa da fattori interni, delle strutture di governo papali, “intorbidò maggiormente la situazione, complicando il gioco degli interessi contrastanti, nella accresciuta confusione fra pubblico e privato, fra esigenze religiose e interessi materiali, fra posizioni municipali e programmi papali”.
Tra 1500 e 1600, scrive Casadei, il contado riminese conta dieci “castelli”, con altrettanti capitani nominati dal Consiglio comunale di Rimini. Tra questi castelli c’è appunto Monte Colombo con annessi Albereto e Monte Tauro.
Da questa antica realtà, parte il libro di Casadei che esamina le vicende politiche di quel territorio, con una accurata documentazione la cui utilità per i lettori si dimostra ad ogni pagina. Essa è presentata con uno stile molto chiaro nell’analisi condotta, e con un ritmo elegante che caratterizza l’intero lavoro.
Se a Rimini si avesse la buona abitudine di leggere ed esaminare “in pubblico” queste cose, anche di questo Monte Colombo (edito dal Ponte Vecchio di Cesena), dovremmo interessarci. Purtroppo, la città offre molti monologhi e pochi dialoghi.
Antonio Montanari