Il nome della città di Rimini risuona nel parlamento del Regno d’Italia il 3 dicembre 1861. Il deputato Angiolo Brofferio tratta il tema dell’ordine pubblico, già affrontato dall’aula il 2 aprile con parole molto dure circa la mancanza di sicurezza pubblica nel novello Stato. Il che significava, era stato detto, pienissima libertà accordata ai ladri ed al ladrocinio.
Ma non è tutta colpa del regno d’Italia. Secondo fogli bolognesi del tempo, l’ordine sociale delle nostre terre era già stato turbato dalle scarcerazioni concesse dopo l’annessione del marzo 1860. Si rimpiange il vecchio sistema, tuttavia accusato di usare il pugno di ferro senza guardare troppo a tutte le virgole ed a tutti i punti negli ordini di carcerazione.
Il moto di Rimini del 1845
In un volume del 1869, emblematicamente intitolato Storia dei ladri nel Regno d’Italia, un capitolo è riservato al capo della Polizia di Torino, Filippo Curletti. Il quale “invece di arrestare i ladri e gli assassini era di balla con loro, li aiutava di sottomano, li soccorreva di lumi, di mezzi, di armi, li difendeva dall’essere scoperti ed arrestati, e partiva con loro l’infame bottino”. Curletti nel 1859 era stato condotto con sé da Massimo D’Azeglio a Bologna per governare le Legazioni sottratte al Papa.
D’Azeglio è l’autore di un celebre testo legato alle vicende risorgimentali di Rimini, Gli ultimi casi di Romagna (1846), dove scrive: “Io stimo intempestivo e dannoso il moto di Rimini” del settembre 1845 che, guidato da Pietro Renzi, ha portato ad un effimero governo provvisorio. I suoi capi fuggirono per mare o ripararono in Toscana dove furono arrestati. Secondo D’Azeglio, pochi uomini non avevano il diritto di giocare con un tiro di dadi “la sostanza, la quiete, la libertà, la vita di un numero incalcolabile” di concittadini.
Curletti da Bologna va poi a Firenze, Perugia e Napoli. Dovunque con la fama di essere “capo di assassini”. Alla fine del 1860, “i bolognesi scrissero una petizione perchè il conte di Cavour, che dicea di averli redenti dal Papa, li redimesse dai ladri”.
Brofferio, che tradì i compagni
Nel libro del 1869 si cita anche Rimini, partendo dagli “Atti parlamentari” (p. 1313) che riportano l’intervento di Brofferio del 3 dicembre 1861: “Quello che accade a Bologna, o signori, accade parimenti a Ferrara, ed a Cesena, ed a Forlì, ed a Rimini, e dovunque”. Brofferio aveva aggiunto: “Il Governo non si accorge che la sua polizia è composta d’uomini i quali non hanno rossore di trattare coi ladri, cogli assassini, coi malfattori d’ogni specie. Sì, o signori, coi ladri e cogli assassini, i quali, come si rivelò ne’ criminali dibattimenti, comprano l’impunità dividendo colla polizia l’infame bottino”.
L’Italia non è ancora nata, e già si cerca di smontarla proprio nel meccanismo più delicato sotto il profilo politico, quello dell’ordine pubblico.
Brofferio (1802-1866) fu giornalista, poeta, avvocato penalista, e leader della sinistra costituzionale di Torino. Che guida assieme a Lorenzo Valerio (1810-1865), direttore di periodici popolari ispirati al suo convincimento che “l’ignoranza è la massima e la peggiore delle povertà”. Valerio siede in parlamento dal 1848 sino alla morte, battendosi per l’istruzione pubblica e l’obbligo scolastico.
Brofferio è un “gran parlatore, grafomane, gigione”, simpatico a Cavour (G. Dell’Arti). Quando conosce il carcere per motivi politici, si dedica alla satira in versi per minare con il ridicolo il campo dell’avversario (P. Bargellini). Nel 1831 ha partecipato alla congiura dei “Cavalieri della Libertà”. Arrestato, ha fatto i nomi dei compagni in cambio dell’impunità. I “Cavalieri” sono una loggia massonica operante dal 1830, con ramificazioni nella stessa Guardia reale. Nella Storia di Torino (1959) di Francesco Cognasso (1886-1986), essi sono definiti “ingenui retori, che parodiavano la rivoluzione del 1821”. (A proposito di Massoneria: a Forlì dal 1818 era attivo un Capitolo Rosa-Croce che dipendeva dal Grande Oriente di Toscana, secondo il gesuita Michele Volpe, autore di un’importante storia del suo Ordine a Napoli, ivi 1914-15.)
Laurana Lajolo (2003) ricorda che Brofferio “condusse una battaglia per l’abolizione della pena di morte e della tortura, per la quale presentò un progetto di legge, che, a sorpresa, fu approvato, ma il governo non diede corso al provvedimento. La sua passionalità di tribuno lo portava, con coerenza politica, ad esaltare gli ideali ed era appagato dal discorso ad effetto, sempre condotto a braccio con un’assoluta naturalezza, che affascinava l’uditorio”.
I delitti di Rimini
Sono toni “ad effetto” anche quelli usati quando cita Rimini. In sua difesa, va detto che i giornali bolognesi del tempo denunciano le stesse cose. Il Corriere dell’Emilia, diretto da Gioacchino Napoleone Pepoli (destinato a brillante carriera politica), annota nel giugno 1860: “È vergogna che in una città civile come Bologna non si possa essere sicuri della propria vita”. Pepoli è figlio di Letizia Murat, quindi nipote di Gioacchino, quello del proclama di Rimini del 1815.
A proposito dell’esser sicuri della propria vita, le paure della gente sono legate anche agli episodi di violenza accaduti negli anni precedenti. A Rimini fra 1847 e 1859 undici persone sono vittime di delitti politici. Il più famoso riguarda nel 1856 un francese “rivoluzionario”, Vittorio Tisserand, cancelliere del vice consolato di Francia a Rimini, imprenditore e marito della contessina Mariuccia Ricciardelli, commerciante. Il 19 marzo 1864 sarà ucciso il sarto Nicola Nagli, ex carbonaro, agente segreto antipontificio, poi Commissario di Polizia dopo la fine del governo papale nel 1859. Sia Tisserand sia Nagli sono stati eletti in Consiglio comunale nel 1849, all’epoca della Repubblica romana, con 288 e 239 voti su 372 elettori.
Tonini accusa la libertà
Le notizie riminesi su questi atti di violenza politica sono molto scarse. Le dobbiamo agli appunti di Luigi Tonini che non si dilunga sul tema, assumendo un tono di censura verso i nuovi tempi, corrotti dal diffondersi della “libertà”. Tonini infatti “alla realtà del suo tempo aderì molto scarsamente”, come osservò lo studioso Mario Zuffa, bibliotecario della Gambalunghiana.
Delitti simili avvengono pure nelle Marche. In un testo relativo a Pesaro-Urbino (di Stefano Lancioni e Maria Chiara Marcucci, Fano 2004), si legge: “Il Risorgimento fu un’età di nobili passioni e generose battaglie, ma anche di assassinii di nemici politici o personali, organizzati ed effettuati da affiliati alle società segrete, che mascheravano talvolta vere e proprie sette omicide. Già nel 1847 si contano gravi fatti di sangue nella nostra provincia […]. A Fano il 3 gennaio 1848 fu ferito a pugnalate da ignoto il conte Luigi Borgogelli, conservatore; alla fine dello stesso mese fu assassinato da ignoti il direttore postale della città metaurense, contrario alle riforme. Assassinio eccellente il 4 febbraio 1848 a Pesaro: fu pugnalato a morte Giuliano Fiocchi Nicolai, segretario generale della legazione di Urbino e Pesaro, patrizio pesarese e in procinto di iniziare un impiego di prestigio a Roma”.
Fu scritto che l’assassino dagli amici al caffé “ebbe battimani e vino […]. Non si appurò da chi venne l’idea né chi commissionò il delitto, ma nessuno dubitò che la morte del Nicolai venne ideata e decisa fra la gioventù liberale ed esaltata” della città.
“Negli ultimi mesi del 1848 si fece gravissima la situazione dell’ordine pubblico soprattutto a Senigallia”, con la fazione repubblicana che fu chiamata “lega degli ammazzarelli”, per i numerosi omicidi di cui fu responsabile in quegli anni. A Pesaro “un gruppo di popolani ’democratici’ defezionò dalla società carbonica e, sotto la guida di Giulio Grilli, cominciò a riunirsi” nell’osteria di Angelo Lombardi assumendo il nome di “Lega Lombarda”. Pure l’oste fu assassinato.
Saccheggio a Pesaro
Per spinta della “Lega lombarda” il 19 novembre 1848 la folla “saccheggiò il palazzo apostolico senza che nessuno intervenisse; il 22 il popolo assalì una barca carica di generi alimentari, distribuiti al popolo. […] Il 19 gennaio 1849 si registrano anche gravi disordini a Senigallia (fu assalito l’appartamento del Vescovo); in quella città il problema principale era però costituito dal mantenimento dell’ordine pubblico”, messo in crisi dalla “setta degli ammazzarelli”, che “sparse il terrore, tra la fine del 1848 e i primi mesi (almeno fino ad aprile) del 1849, con un’impressionante serie di omicidi: la situazione di terrore, completamente sfuggita di mano ai patrioti locali, si protrasse fino all’arrivo degli Austriaci”.
Torniamo a Rimini ed al 1860, quando Giuseppe La Farina, siciliano, carbonaro e massone, ricorda la nostra città in un suo proclama indirizzato nel maggio ai soldati italiani al servizio del Borbone e del Papa: “La bandiera sacra de’ tre colori è inalberata da Susa a Rimini…”. Altra memoria locale, tratta dal “Rapporto intorno all’attacco ed alla presa del Forte di S. Leo” del 28 settembre 1860, è questa: “Nel nostro ingresso nella città di Rimini ci si presentò un commovente spettacolo della popolazione che si gettava ai nostri piedi baciandoci la mano per averla salvata dal dispotismo della guarnigione austriaca che occupava il loro paese, e nella sera un’illuminazione generale festeggiava il fausto avvenimento”.
Dagli “Atti parlamentari”, 2 dicembre 1861: “Il sindaco di Rimini trasmette un’istanza della ditta Legnani per diminuzione del prezzo del sale occorrente alla fabbricazione della soda”.
Antonio Montanari