Ogni domenica in Italia vengono fatte dalle 130 alle 140 mila omelie. È quindi uno strumento di comunicazione formidabile che raggiunge un numero grandissimo di persone. L’omelia è chiamata anche predica e se guardiamo ai suoi sinonimi troviamo: discorso, filippica, paternale, romanzina, richiamo, rimprovero, sermone, sgridata. Ora qual è lo stato di “salute” dell’omelia? Come viene usata? Lo abbiamo chiesto a don Chino Biscontin, direttore della rivista, Servizio della Parola, grande studioso dell’argomento, a Rimini per un seminario di studio sull’Omelia organizzato dalla Comunità del Diaconato. L’incontro si è tenuto sabato 5 febbraio presso il nostro seminario. Erano presenti una ventina di diaconi, candidati a diaconato ed alcuni sacerdoti.
Don Chino, come sono le omelie oggi in Italia?
“Non esiste l’omelia «perfetta»; ce ne sono di molto buone, di buone, di sufficienti, di scarse e di pessime. Mediamente a me sembra che manchi una preparazione specifica in rapporto a quello che è lo «statuto» dell’omelia, il come deve essere: il suo punto di partenza, il punto di arrivo, il percorso da fare, l’obiettivo da raggiungere”.
Quali sono i punti irrinunciabili da tenere sempre presente in questo importante servizio?
“Sono senz’altro tre: la Parola proclamata, il contesto liturgico immediato (esempio una solennità, una festa liturgica…) e quello più ampio; e infine il contesto pastorale. Devo guardare l’assemblea a cui sto parlando e chiedermi: «chi mi ascolta, cosa porterà a casa di concreto per la propria vita?». Il punto di partenza per una «buona omelia» è l’assemblea, cioè dove si trova l’assemblea rispetto al pensiero di Dio che oggi abbiamo ascoltato; e il punto d’arrivo deve essere sempre l’assemblea: verso dove la voglio indirizzare rispetto alla Parola ascoltata”.
Quali sono i rischi assolutamente da evitare?
“L’essere troppo concentrati su se stessi, il cercare la gratificazione personale. Questo può costringere l’omelia a dipendere dallo stato d’animo del predicatore; quando Gesù entrò a Gerusalemme e tutti applaudivano, il somaro perché era somaro pensava che si riferissero a lui. Alla fine ci si ricorda di chi ha parlato ma non di cosa ha detto. L’altro pericolo è l’essere troppo concentrati sul contenuto. L’obiettivo non è spiegare la Scrittura, questo è il mezzo che devo usare per raggiungere l’obiettivo. Il terzo pericolo è il moralismo.”
Quando una omelia è moralistica?
“Quando si danno giudizi generici non giustificati e generalizzati. Ad esempio: i giovani oggi…, le donne…, gli stranieri… Quando si indica la meta da raggiungere ma non si danno gli strumenti, non si indica il cammino che si può intraprendere; soprattutto quando si fa l’enunciazione del «comandamento» senza le mediazioni, il cosa vuol dire per noi oggi, il come fare. Quando facciamo questi tipi di omelie siamo come quei farisei ammoniti da Gesù di far portare agli altri pesi che loro neppure toccano con dito”.
Come prepararsi per fare una buona omelia?
“L’omileta deve avere due qualità: l’amore al Signore Gesù e la carità pastorale alla sua comunità. Deve anzitutto essere cosciente che parla di «uno che è presente», non di un personaggio storico e quindi innanzitutto deve entrare in relazione con il Signore Gesù attraverso l’ascolto della Sua Parola e la preghiera. Il predicatore è un servo della Parola e trasmette ciò che ha ricevuto. La liturgia della Parola è mediazione offerta a Dio perché Egli possa parlare. Poi si deve scegliere un obiettivo, ciò che voglio far arrivare alla mia gente. Infine si sceglie un tema, solo uno fra i tanti offerti dalla Parola, quello che mi sembra migliore per raggiungere lo scopo. Il tutto va supportato con una buona tecnica che aiuti a “parlare in pubblico”. Sorridendo potremmo dire che l’omileta deve avere qualcosa da dire, saperlo dire, smettere quando lo ha detto (dopo 10 minuti max)”.
Don Chino, ma in fondo qual è l’obiettivo di ogni omelia?
“Spezzare la Parola, annunciare la Buona Notizia e soprattutto aiutare la nostra gente a scoprire quanto è grande l’amore di Gesù per noi, quanto ci ama. Aiutare a scoprirsi amati da Dio”
Cosa dire a chi non si sente “capace”?
“Io gli direi di stare sereno. Perchè se chi parla è in relazione con il Signore poi Lui stesso prenderà le povere parole del predicatore e le trasformerà in fonte di Grazia per tanta gente, così come ha fatto con la moltiplicazione dei pani. Fai come se tutto dipendesse da te e poi metti tutto nelle mani di Dio sapendo che tutto dipende da Lui”.
Quando allora ci sembra che il nostro “predicare” sia come parola al vento, in parrocchia, in famiglia e in ogni altro ambito educativo, ci vengono in aiuto le parole del cardinale Lustinger: “Se vostro figlio non segue le vostre pratiche religiose non significa che abbia perso Dio, né tanto meno che Dio abbia perso lui. In fondo non sapete niente di cosa accade nel suo intimo, non dovete soprattutto sentirvi in colpa. La fede ha le sue stagioni, segue percorsi misteriosi… Ma se voi avete seminato il seme buono del Vangelo, anche se ora è inverno e tutto sembra morto, il seme spunterà, la primavera tornerà. Il profeta Isaia assicura che le cose di Dio non torneranno a Dio senza aver portato frutto, perché la forza non è nel seminatore, ma nel seme, la forza non è nel predicatore ma nel Vangelo predicato, la forza non è nella bravura del genitore, ma nella forza intima, buona e imbattibile di ciò che ha trasmesso ai figli”
Cesare Giorgetti
Nella foto, don Chino Biscontin