Loredana, cinquantenne riminese, poco più di un anno fa ha ricevuto un dono speciale, di quelli che ti cambiano la vita o te la regalano addirittura. Ha ricevuto un fegato nuovo, appena in tempo. Poche altre settimane e sarebbe stato troppo tardi.
Loredana era affetta da Cirrosi biliare primitiva, una malattia autoimmunitaria del fegato.
Cominciamo dal principio. La diagnosi quando è arrivata?
“La diagnosi era arrivata quando avevo circa 38 anni, ero giovane, sposata con due figli adolescenti. Subito il medico mi aveva spiegato che non esisteva una terapia risolutiva ma solo terapie che potevano rallentare il decorso della malattia e che forse in futuro sarebbe stato necessario il trapianto. Ho iniziato le cure e anche se dovevo cambiare spesso farmaci, non avevo particolari problemi, eccetto per i valori epatici sempre sballati nelle analisi.
Insomma, tutto procedeva normalmente, tenevo sotto controllo la malattia, facevo gli esami e continuavo la mia vita senza sintomi o problemi”.
Poi cos’è successo?
“A maggio del 2009 mi sono ammalata. La mia pelle ha cominciato ad ingiallire e improvvisamente ho accusato dei problemi alla vista. Mi sono spaventata e sono andata al pronto soccorso. La visita oculistica risultò normale così come quella otorinolaringoiatrica e mi consigliarono di fare un elettroencefalogramma. Non lo feci e su consiglio del mio medico feci invece una tac, cui seguì un ricovero di 10 giorni all’ospedale di Santarcangelo.
Da lì mi trasferirono all’ospedale di Rimini per fare altri esami. Nel frattempo la vista era tornata normale e credevo di stare meglio”.
E invece?
“E invece quando la dottoressa del reparto di Medicina 2 ha guardato la mia cartella clinica ha detto subito che avrei dovuto restare ancora ricoverata e che sarebbe partito l’iter per il trapianto di fegato. A quel punto mi è crollato il mondo addosso: non me l’aspettavo assolutamente, quando anni prima mi era stato prospettato lo immaginavo molto lontano, ho sempre creduto che sarei stata più vecchia! E invece mi ritrovavo a 50 anni in un camerone da 6 letti che ho ribattezzato l’anticamera dell’obitorio per quanto era triste e pieno di gente sofferente, che infatti da lì a poco morì. Io no, io sono uscita dal camerone”.
Che cosa ha pensato quando le hanno detto che aveva bisogno del trapianto?
“Trapianto è una parola grossa, che fa paura. Mi ricordo che in quei giorni ebbi delle crisi di pianto con la mia famiglia, ma passato il primo momento di stordimento decisi di non farne una tragedia: non c’era altra soluzione, per fortuna c’era almeno questa prospettiva! Sono stata in ospedale un mesetto per fare tutti gli accertamenti del caso. È stato pesante soprattutto l’ultima settimana: nutrita solo da flebo ero sempre più debilitata e sempre in quei 7 giorni si sono concentrati tutti gli esami più invasivi. Un calvario, insomma. Tanto che sono stata dimessa per paura di contrarre infezioni e aggravarmi”.
Come ha vissuto l’attesa del trapianto?
“Dopo quel primo ricovero, le mie condizioni si sono aggravate, avevo spesso la febbre alta e sono stati necessari altri 3 ricoveri. Ricordo che aspettavo il trapianto sicura che prima o poi sarebbe arrivato e tutto sarebbe andato bene.
Anzi, il momento è arrivato prima di quanto mi aspettassi: durante l’ultimo ricovero, a settembre 2009, è arrivata la telefonata tanto attesa. Era disponibile un fegato e potevo fare il trapianto! Avendo la febbre alta mi dissero che non mi avrebbero operata.
Fu la delusione più grande della mia vita, mi sentivo debole e mi sembrava di aver perso la mia occasione. Invece si vede che qualcuno aveva deciso che era arrivato il mio momento perché qualche giorno dopo un’altra telefonata mi avrebbe salvato la vita. Era il 18 settembre, ricordo che stavo facendo una flebo e gli infermieri hanno aspettato che finisse mentre mio marito mi preparava la valigia. Poi siamo partiti per il Sant’Orsola di Bologna, io in ambulanza e mio marito dietro, con la macchina. Poco prima di mezzanotte sono entrata in sala operatoria e il mattino dopo mi sono ritrovata in terapia intensiva. L’intervento era riuscito benissimo, mi sono stati trapiantati fegato e cistifellea”.
Cosa ricorda di quei primi momenti?
“Non molto, i primi giorni dopo l’intervento ero completamente intontita. Ho avuto una crisi di rigetto al terzo giorno. Poi piano piano le cose hanno cominciato ad andare meglio e sono passata alla camera di degenza normale. Dopo la dimissione ho cominciato i controlli: prima ogni settimana, poi ogni 2 poi una volta al mese e ora una volta ogni 3 mesi. La terapia cortisonica che sto facendo purtroppo mi ha provocato un’osteoporosi che ultimamente ha determinato la frattura di una vertebra. Però sono contenta, mi ritengo fortunata. Io non me ne rendevo conto ma ero veramente grave e questo spiega, col senno di poi, l’urgenza con cui ho ricevuto il trapianto. Solo dopo che tutto era finito mi hanno detto che la situazione era molto seria”.
Ha mai avuto paura di non farcela?
“Mentre aspettavo il trapianto ho continuato a vivere normalmente anche se stavo male, non ho mai pensato che sarei morta, ho sempre dato per scontato che ce l’avrei fatta: non potevo ancora andarmene, avevo ancora tanto da fare qui, i miei figli avevano ancora bisogno di me! Col senno di poi credo che questa mia “inconsapevolezza” sia stata una fortuna perché non mi ha permesso mai di demoralizzarmi. Ho continuato a fare la mia vita senza pensare a quanto stavo male, ricordo che una volta sono addirittura andata a raccogliere le vongole al mare con mio marito, con una mano raccoglievo le vongole con l’altra mi tamponavo il naso che sanguinava.
Invece mio marito si rendeva conto della gravità della situazione e ad un certo punto decise perfino di donarmi una parte del suo fegato. I medici si opposero, ma lui mi disse il motivo solo molto tempo dopo: ero talmente grave che non mi sarebbe bastata una parte di fegato!
La sera a volte andavo a veglia da una vicina di casa per stare in compagnia; era estate, mi mettevo sulla sdraio in cortile. Adesso che tutto è andato bene lei mi racconta che guardandomi pensava: «Ce la farà ad arrivare a domani?»
Ma alla fine ce l’ho fatta”.
E con quanta forza, mi viene da dire
“Insomma, ricordo che ci sono stati momenti molto duri, specialmente durante i ricoveri precedenti l’intervento. Uno in particolare mi aveva tolto le forze, ero costretta a letto, senza mangiare e senza poter andare nemmeno in bagno. Io non tollero di dipendere dagli altri così a un certo punto mi è scattata dentro una molla e ho deciso di farmi forza: ho ordinato che mi venissero tolte tutte le flebo e volli andare in bagno da sola. Cominciai con molti sforzi a mangiare quello che mio padre cucinava a casa e in pochi giorni riuscii a recuperare le forze.
Ho tre sorelle e devo dire che tra noi io sono sempre stata quella col carattere più mite, la più accomodante, la più calma. Bè, affrontando questa malattia mi rendo conto di aver tirato fuori le unghie più di una volta. Le mie sorelle mi dicono «Tu credi di essere debole invece sei la più forte!»”.
Che clima ha trovato in ospedale?
“Sia l’equipe del professor Antonio Pinna (direttore centro trapianti multi viscerale Policlinico di Bologna) sia il reparto di Medicina 2 di Rimini diretto dal dottor Giorgio Ballardini sono stati meravigliosi, non potevo sperare di meglio.
Mi hanno tutti trattato con dignità e gentilezza. Ricordo che a Bologna in terapia intensiva ho aperto gli occhi e pensavo di essere morta. Davanti a me c’era un ragazzo gentile, un infermiere, che mi trattava con tanto amore che a me sembrava un angelo e gliel’ho detto. Lui mi ha risposto: «Non sei morta, sei viva. E io non sono un angelo: faccio solo del mio meglio pensando che al posto tuo potrebbe esserci mia madre». Ancora oggi ho un ottimo rapporto col dottor Ballardini e i suoi collaboratori, mi chiamano la miracolata di medicina 2!”.
Che cosa sa del donatore?
“Ho provato a chiedere notizie ma non mi hanno potuto dire niente, so solo che morì in un incidente stradale. All’inizio mi sono sentita quasi in colpa nei suoi confronti, anche se so perfettamente che la sua morte non dipende da me. Quello che conta oggi è che vivo grazie a una persona che non c’è più e posso solo dire grazie. Al donatore e alle persone che hanno reso possibile questo miracolo. Quando sarà il mio momento lo farò anche’io: noi siamo anima, il corpo non è altro che un involucro, se può fare del bene a qualcun altro come qualcuno lo ha fatto a me, ben venga!”.
Romina Balducci