“Esistono due tipi di assuefazione all’eroina: l’assuefazione del tossicomane e l’assuefazione dell’opinione pubblica. Un’efficace attività preventiva deve combattere questo secondo tipo di abitudine. L’eroina a Rimini nel giro di tre anni ha assunto dimensioni preoccupanti. I tossicomani che si sono rivolti al C.M.A.S (Centro Medico di Assistenza Sociale) per disintossicarsi sono in continuo aumento. L’incremento nel periodo 30/9/1979-30/4/1980 è stato del 187% di eroinomani al di sotto dei 20 anni, del 9.5% tra i 20 e i 24 anni e del 51% al di sopra dei 25 anni. Da questi dati si può notare che il mercato punti decisamente sugli adolescenti e di come questi caschino nella rete. […] A Rimini e circondario esistono circa 600 tossicomani, comperano in media 50mila lire di eroina al giorno. Con una semplice operazione scopriamo che il mercato è di 30 milioni al giorno, 900 milioni al mese, circa 12 miliardi all’anno”.
Siamo nel 1980. Con queste parole inizia un volantino che chiama ad una manifestazione cittadina organizzata per il 22 novembre. Lo firmano «i giovani del Centro, il comitato dei genitori, gli operatori del Cmas», struttura della Ausl Rimini Nord. L’obbiettivo della manifestazione, la prima del suo genere, “politicizzare il tema della tossicodipendenza”. Ovvero, per dirla ai nostri giorni, farla mettere in agenda per la città.
Sveglia, Rimini!
“Rimini – questa la teoria degli organizzatori – si crede un’isola felice, coltiva lo stereotipo della città tranquilla, funzionale alla vendita del prodotto turistico. Ma non lo è più”.
Una forte «sveglia» che produrrà di lì a pochi anni, dapprima una cooperativa, la Cento Fiori, poi la Comunità di Vallecchio. Una genesi sociale e politica dove la partecipazione e la discussione cercavano e creavano una teoria e una prassi originali nella lotta alla tossicodipendenza.
Alla manifestazione si presentarono in 5mila. Sfilarono per le strade riminesi “diversi giovani sulla «piazza» (border-line, tossicodipendenti, emarginati, volontari) desiderosi di impegnarsi in un’impresa che aveva lo scopo di creare, attraverso il lavoro, opportunità per affrancarsi e liberarsi dalla dipendenza da droga”. E tra questi rappresentanze politiche, delle istituzioni, del mondo sanitario. Il lavoro di prevenzione con assemblee e incontri nelle fabbriche, nelle sezioni di partito, nelle parrocchie, e la cura verso i tossicodipendenti (e le loro famiglie), svolti dal Cmas fino a quel momento, non bastavano più.
“Avevamo capito che Rimini non si rendeva conto di cosa stava succedendo – ricorda Leonardo Montecchi, psichiatra all’epoca in forza al Cmas insieme a Sergio Semprini Cesari e Massimo Ferrari, ora al Sert – alla fine degli anni ’70 arrivava al Centro per curarsi un sacco di gente, eravamo pochi e con pochi mezzi”.
“C’era un movimento di massa che spingeva per trovare soluzioni al problema droga diverse da quelle esistenti – sottolinea Werther Mussoni, già presidente della Cooperativa Cento Fiori all’epoca della fondazione della Comunità di Vallecchio – per i non credenti la comunità della Papa Giovanni XXIII poteva non essere adatta. Così come non lo era una comunità come San Patrignano dove una figura carismatica sostituiva il Cristo, ovvero il Santone, convinti come eravamo che per aggredire il problema della droga ognuno doveva trovare le risposte dentro di sé”.
Il problema eroina
L’eroina aveva fatto da poco il suo ingresso in città.
“Cinque anni prima il problema era minimo. – scrivono nel volantino gli organizzatori – Dieci anni fa non esisteva”. Prima i tossicomani utilizzavano il metadone, prescritto dai medici di base. “L’eroina per molti era una scelta di rottura con la società – continua Mussoni – un tossicomane una volta mi disse che siamo una civiltà consumistica, tutti cercano cose che facciano star bene ma non bastano mai: si ha bisogno di altro. Io nell’eroina ho trovato il massimo del consumismo. Ho un motivo per alzarmi la mattina e correre tutto il giorno: trovare la droga”.
Il Cmas, per tenere sotto controllo il fenomeno e per arginare l’eroina accentra su di sé la distribuzione del farmaco, distribuendolo come terapia. “Dapprima in fiale – ricorda Montecchi – poi studiando le esperienze all’estero, siamo passati allo sciroppo, eliminando così il gesto del bucarsi”.
Nel centro di via Bonsi non si distribuisce solo metadone. Si fa attività di Centro Diurno con i pazienti, le loro famiglie. Il comitato genitori, l’assemblea degli utenti e gli operatori stampano volantini, pubblicano la rivista «Giù la maschera» e il giornale «Centolire».
Il canto della sirena
Per completare questo modello riminese, all’ambulatorio e al centro diurno manca la terza struttura, la comunità. È attraverso quella che si può completare il lavoro sui pazienti, distogliendoli dal richiamo della «piazza». Dentro al Cmas nasce la cooperativa Cento Fiori, primo presidente il dottor William Raffaelli, pochi mesi dopo prende il suo posto Werther Mussoni. Ma “una cooperativa non poteva essere una risposta – dice Mussoni – sì, c’era qualche attività artigianale, ma avevamo bisogno di una struttura che troncasse con la piazza. Massimo Semprini Cesari cercò tra i terreni pubblici e trovò il podere Fonte a Vallecchio, che era dell’ospedale Fantini di Montescudo. Cominciammo un’operazione per mettere d’accordo tutti, Circondario (l’equivalente istituzionale della Provincia di oggi ndr) e Comuni volevano una comunità di tipo pubblico, gestita da un privato cooperativo. Occorreva convincere Montescudo a «mollare» – capirai, un terreno di 20 ettari… – e lo fece in cambio di un servizio di trasporto scolastico e una nuova destinazione per l’ospedale. E mentre la trattativa tra le istituzioni procedeva, per stimolare enti locali e burocrazia, occupammo il podere e iniziammo i lavori”.
La Comunità di Vallecchio
Il 23 maggio del 1984 firmarono la convenzione i Comuni di Montescudo, Rimini e la cooperativa. La casa poderale non era però agibile. Venne donato un prefabbricato usato per il terremoto del Friuli, rimontato a Vallecchio dagli utenti del Cmas, mentre si stava ristrutturando la casa. Contemporaneamente si cercò il personale: la selezione fu di tipo pubblico “scelta che trovammo naturale, visti i soggetti pubblici coinvolti” e il corso di formazione e lo stage fu fatto presso la Comunità di Gradara per sette operatori. “Montammo la prima struttura della comunità con i primi 9 ragazzi, tutti di Rimini. Gli operatori cominciavano a lavorare sul metodo Vallecchio, un metodo di tipo comportamentale. Lavoravamo sulla trasgressione, che ti aiuta a capire quali sono le tue difficoltà. Un metodo che mette in discussione anche la struttura, se i risultati non arrivano: non sceglievamo chi prendere, ci adeguavamo alle persone e ai loro problemi. E tutti i nove ne sono usciti. Una cosa esaltante”. Il lavoro era quello della fattoria, ma anche di governo della struttura: far da mangiare, le pulizie, oltre alle attività agricole. Poi c’erano gruppi di terapia per gli utenti e per le famiglie, perché anche su loro gravava l’impatto dell’eroina.
“Tutta questa voglia di fare ha realizzato qualcosa perché le Amministrazioni locali non ne volevano sapere di una nuova comunità organizzata come un Principato, con proprie frontiere e regole. Che non sono le nostre. Pubblico e privato volevano qualcosa di trasparente, con metodi conosciuti, condivisi, democratici, dove chiunque poteva entrare e vedere cosa stesse accadendo dentro. Creammo per la prima volta ciò che oggi chiamano «sussidiarietà». Ciascuno dava il meglio di quello che aveva: l’Ausl il Cmas, la cooperativa spirito di avventura, voglia di fare e le capacità imprenditoriale e di adeguarsi”.
Enrico Rotelli
Nella foto, la demolizione della vecchia struttura