Dischiude uno squarcio di cielo l’immagine, sempre forte e sempre tenera, del buon Pastore, affrescata da Gesù nel vangelo di s. Gaudenzo (Gv 10,11-16). Con la risurrezione del Crocifisso la vicenda del “Pastore grande delle pecore” (Ebr 13,20) non si può archiviare in un passato remoto, morto e sepolto, ma racconta una vicenda in corso, che mette in comunicazione cielo e terra. Mentre si fa festa in terra per una sola pecorella ritrovata, in cielo c’è gioia per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
1. È l’avventura del Pastore buono, meglio del “Pastore bello”, come si coglie nel suono di sottofondo dell’originale testo greco. La bellezza del Pastore, il suo fascino irresistibile stanno nella gioia di vedere fiorire la vita brano a brano in tutte le sue forme più esuberanti, di farla cantare sillaba per sillaba in tutte le sue note più acute e squillanti. Per far fiorire e cantare la vita, il Pastore grande, buono e bello deve offrire la propria. Il vangelo di Giovanni, dentro e intorno al nostro brano, per ben cinque volte in poche righe martella l’espressione: “Io do la mia vita”. Dare la vita non significa per prima cosa morire, ma far vivere, seminare futuro. Concretamente significa contagiare libertà, infrangere solitudini, dilatare recinti, dischiudere orizzonti, trasmettere luce, pace, gioia.
Il Pastore bello insegna: solo se si comunica vita nella vita – durante la vita, goccia a goccia, giorno dopo giorno – si può comunicare vita anche nel giorno della morte. Commenta il nostro santo Padre, Benedetto XVI: “Donare la vita, non prenderla. È proprio così che facciamo l’esperienza della libertà: la libertà da noi stessi, la libertà dell’essere. Proprio così, nell’essere utile, nell’essere una persona di cui c’è bisogno nel mondo, la nostra vita diventa importante e bella. Solo chi dona la propria vita, la trova” (7 maggio 2006).
Due note in particolare scandiscono lo stile del buon Pastore: l’universalità dei destinatari, l’unità del gregge. Permettetemi, fratelli e sorelle, di indugiare questa sera con voi sulla prima nota, quella della universalità, come orizzonte di destinazione del servizio pastorale. Il pastore – vescovo o presbitero – non si appartiene, ma appartiene a tutti: cerca tutti, pensa a tutti, si fa “tutto a tutti”.
Il vero pastore deve essere disponibile a tutti, capace di abbattere muri, di sbriciolare steccati, di lanciare ponti, di tessere costantemente una fitta rete di relazioni con tutti; deve essere un pastore esperto nel presiedere alla comunione di tutti. È questa la prima forma di universalità che occorre vivere. Ma non possiamo illuderci: una concreta disponibilità ad omnia e ad omnes – a tutto e a tutti – non è un idillio.
Se si vuole essere il pastore di tutti, non basta fare di tanto in tanto proposte aperte a tutti, e poi…“chi ci sta ci sta”. La ricerca delle novanta pecorelle smarrite non può ridursi alla estemporanea preghiera da parte delle dieci rimaste nell’ovile, non può limitarsi a qualche sporadica iniziativa diretta ai molti lontani, da parte di un pastore, rimasto impigliato nella siepe dei pochi vicini. La ricerca di tutti deve invece essere un obiettivo immancabile che anima ogni attività pastorale, ispira ogni iniziativa, addita mete alte, apre strade nuove, disegna passi possibili e concreti. Non si tratta infatti di inventare un nuovo vangelo, ma di ripensare un modo nuovo di annunciarlo, per riuscire a intercettare l’uomo qualunque, lontano o vicino che sia. Non è questa la nuova evangelizzazione?
2. Essere pastore di tutti abbraccia un secondo cerchio – ma non è un cerchio secondario, bensì decisamente prioritario – il cerchio degli ultimi.
A prima vista potrebbe sembrare, questa, una scelta selettiva e discriminante: in realtà è una scelta che unisce, non che divide. Ed è una scelta evangelica, e perciò sacrosanta, indiscutibile, irrinunciabile. Il buon Pastore ha fatto sulla propria pelle questa scelta. Non ha valicato i confini della Palestina, ma ha frantumato tutti i muri di divisione che ha incontrato: tra giudei e greci, tra schiavi e liberi, tra uomini e donne.
E soprattutto si è preso cura delle pecorelle più povere, più emarginate e indifese. Anche questa è una scelta che costa sangue. Essere pastore di tutti significa lasciarsi percuotere dalle povertà – da tutte le povertà – degli ultimi. In questi anni nella nostra Chiesa riminese abbiamo maturato una discreta sensibilità alle povertà materiali: alla povertà di pane, di acqua, di benessere, di progresso, e anche a diverse povertà morali: di cultura, di libertà, di pace. Ma occorre recuperare anche una cordiale e concreta sensibilità nei confronti delle povertà spirituali: di fede, di speranza, di amore.
È urgente ricordare che il cerchio degli ultimi comprende anche quei fratelli che ci affliggono e ci causano sofferenza e contrarietà: quanti ci assillano con richieste esorbitanti e sproporzionate; quanti ci rattristano con critiche malevole e pretestuose; quanti non condividono la nostra personale spiritualità, il nostro carisma particolare, le nostre devozioni private; quanti non si ritrovano nel nostro modo di condurre la parrocchia. In questi casi occorre vigilare, perché nel cuore di noi pastori non si depositi quella ruggine di amarezza che ci induce a recriminare e ad aggiungere altri capitoli e versetti al libro delle Lamentazioni!
“Un pastore – ammoniva Dietrich Bonhoeffer – non deve lamentarsi della sua comunità, tanto meno davanti agli uomini, ma neppure davanti a Dio; essa non gli è stata affidata perché se ne faccia accusatore davanti a Dio e agli uomini” (Vita comune). Anziché lamentarci – è sempre Bonhoeffer – dovremmo piuttosto ringraziare “quotidianamente” per la comunità cristiana in cui ci troviamo, “anche nel caso che non si tratti di una grande esperienza, di una ricchezza visibile, ma piuttosto di un aggregato di debolezze”.
3. E c’è un terzo cerchio che un pastore, modellato sul buon Pastore di tutti, non può assolutamente scartare: è la Chiesa diocesana, che è sempre più grande della singola comunità parrocchiale o dell’ambito ristretto in cui un presbitero esercita il ministero.
Un pastore non può lasciarsi catturare nell’ombra del campanile, non può pensare alla propria parrocchia come ad una cellula autonoma e autosufficiente. Vale per ogni comunità cristiana, e quindi anzitutto per il presbitero che la guida, quanto afferma s. Paolo: “Rallegratevi con quelli che sono nella gioia; piangete con quelli che sono nel pianto. Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non nutrite desideri di grandezza” (Rm 12,15s). Questi versetti vanno declinati non solo sul versante interpersonale, ma anche su quello interparrocchiale, nei rapporti tra comunità e comunità, a cominciare da quelle più prossime, incluse nella medesima zona pastorale e nella stessa forania.
Per quanto riguarda personalmente il pastore, che voglia essere affettivamente ed effettivamente aperto all’insieme di tutti, uniti in un solo corpo nella Chiesa diocesana, è indispensabile che consideri la comunità che gli è stata affidata come un dono, non come una proprietà privata. E che quindi si spenda per essa come se ci dovesse restare fino al giudizio universale, ma che sia sempre pronto ad andare a servire altre comunità, quando la decisione ponderata del vescovo lo giudichi necessario e opportuno.
Solo un cuore così grande nel donarsi, senza mire e senza miraggi, permette al pastore di amare persone e popolo nella vera carità, senza che un’ombra di possessività invecchi il suo cuore.
4. Perché questo ideale alto ed esigente, ma anche intimamente pacificante – essere pastore di tutti – si possa realizzare, è indispensabile che si verifichino due condizioni, che san Tommaso d’Aquino nel commento al vangelo odierno formulava così: “Non si può essere buon pastore se non diventando una cosa sola con Cristo e suoi membri mediante la carità” (In Ioh. cap. 10, lez. 3).
“Una cosa sola con Cristo”. Nella storia della pastorale è da tutti riconosciuto che i parroci più vivacemente ed efficacemente missionari sono stati coloro che erano animati dalla ferma convinzione di dover portare ai fedeli una bella notizia attesa. Questa: “Cristo ci ha amati e ci ha salvati a prezzo del suo sangue”. Non sempre, però, si osserva che quello slancio missionario – chiamato con espressione classica “zelo pastorale” – non nasceva anzitutto dall’incontro con le molte emergenze della gente del tempo. Certo, la disponibilità a spendersi per la cosiddetta “promozione umana” è centrale, ma non è il centro del cuore dei santi sacerdoti. Al centro c’era e c’è sempre l’incontro con lui, il Pastore primo e supremo, Cristo Signore. Non dei “facchini” che sgobbano per Cristo, ma solo pastori innamorati di lui, Pastore buono, riescono a fare innamorare di lui il gregge loro affidato.
Un’altra condizione imprescindibile per essere pastori di tutti è quella della fraternità di ciascun pastore con il vescovo e l’intero presbiterio. Lo sappiamo: lo spessore della nostra efficacia pastorale è dato dall’altezza della nostra fede e dalla larghezza della nostra fraternità. Questa è la santità che ci è richiesta oggi, se vogliamo essere fedeli al Concilio, al Papa e alla Chiesa: una santità di comunione, una santità di fratelli uniti affettivamente ed effettivamente nello stesso presbiterio. Se mai c’è stato un tempo in cui un pastore poteva fare il pioniere solitario o il battitore libero, oggi lo è meno che mai. Un pastore che non vive la fraternità con i confratelli pastori, prima o poi vede la propria attività pastorale e la sua stessa vita piombare nell’assurdo. La parola “assurdo” ha la stessa radice di “sordo”. Il pastore, sordo alla voce del buon Pastore che lo chiama a seguirlo insieme ai confratelli, entra nell’assurdo. Esce dalla sordità e dall’assurdo chi ascolta la voce del Pastore che chiama a comunione, e invita ad entrare in una relazione amorosa e fraterna con lui e con tutti e ciascuno degli altri “con-pastori”.
Che san Gaudenzo ci ottenga di ascoltare la parola del buon Pastore e di muovere nel nuovo anno pastorale altri passi concreti verso il grande orizzonte della comunione. E la Parola del santo evangelo correrà (At 20,24). E anche noi correremo, senza peraltro correre invano, ma come correva l’apostolo Paolo (1Cor 9,24). Non saremo noi a far correre la Parola, ma sarà la Parola a far correre noi.
+ Francesco Lambiasi