Furono ben quattro gli anni di lavoro – e di lavoro sofferto, o meglio contrastato da discorsi di opportunità, ragionamenti di metodo, problemi tecnici di difficile soluzione – quelli che portarono alla riconsacrazione e alla restituzione al culto del Tempio Malatestiano fra il 21 e il 24 di settembre del 1950.
Già nel 1946 il Genio Civile si era messo all’opera per restaurare e ripristinare il Tempio, che più volte, tra la fine del 1943 e la primavera del 1944, era stato duramente colpito dalle bombe. Ne era uscito pressoché distrutto, con il tetto scoperchiato, senza l’abside e con i muri pericolosamente strapiombanti, specialmente nella parte anteriore, quella della facciata.
Il Genio Civile con numerose iniezioni di cemento si affrettò a bloccarne la struttura, garantendo la statica dell’edificio; inoltre smantellò il grosso muro esterno di mattoni e sabbia messo a riparare i fregi del basamento, i muretti che all’interno proteggevano i pilastri scolpiti, liberandolo dalle macerie. All’interno la parte quattrocentesca tutto sommato era salva, nonostante qualche scultura fosse stata sfregiata e le balaustre marmoree fossero ridotte in frantumi. Occorreva rifare il tetto, le ultime cappelle, l’abside, le finestre, tutti gli altari, e risarcire archi e volte. Ma ciò non sarebbe bastato a restituire al Tempio il suo splendore. Era infatti evidente che la parte più ‘nuova’ e rilevante del Tempio, quella esterna, storta e inclinata com’era, aveva ormai perso la sua armonia originaria: un’armonia che era affidata alla sua magica geometria, o se si preferisce alla sua geometrica musicalità, che lo rendeva veramente speciale.
Per rimediare l’unica tecnica possibile era quella dell’anastilosi: lo smontaggio, cioè, di tutta la parte esterna dell’edificio, e la sua fedele ricostruzione secondo la geometrica regolarità che le aveva voluto conferire il suo geniale ideatore, il grande Leon Battista Alberti. Un’impresa difficile, complessa, problematica, costosa. Sul metodo fu discusso a lungo: e forse non ci si rese pienamente conto che l’anastilosi avrebbe distrutto l’originale per ricostruirne una copia con gli stessi materiali (“un doppio”, infatti, è stato definito recentemente). Furono istituite commissioni comunali e ministeriali, furono compiuti sopralluoghi e discusse le questioni tecniche, furono accettate le dimissioni di chi non era d’accordo e di chi non voleva correre rischi. E il cantiere si mise in moto: l’armonia originale doveva essere ripristinata, i danni della guerra dovevano essere cancellati. In quel momento quei danni non sembravano testimonianze di storia, ma solo sfregi alla bellezza dell’arte. Per quanto riguardava la spesa, vennero in soccorso dei sussidi americani (dalla fondazione Kress). Si lavorò in fretta perché la data delle celebrazioni del mezzo millennio del Tempio era vicina. E si arrivò in tempo.
Così dall’agosto al settembre del 1950 poterono essere celebrati i cinquecento anni della fondazione del Tempio: 1450-1950. Il Direttore del Ministero e il Ministro della Pubblica Istruzione fecero i loro discorsi; vennero stampati dei “numeri unici”; venne tenuto un convegno; venne inaugurata una mostra malatestiana; venne modellata una bella medaglia dallo scultore Elio Morri (nella foto). L’edificio era ancora nudo di suppellettili e arredi, ma nell’agosto del 1950 fu finalmente reso visibile e costituì uno splendido ambiente per concerti; vi risuonarono musiche di Perosi, Verdi, Bach, Boccherini, Corelli e Vivaldi. Il pubblico fu numeroso, attento e “paganeggiante”, come osservava Luigi Pasquini: “Giovani e bellissime donne mostravano le spalle ignude e abbronzate dal sole. Gli uomini tributavano loro i dovuti omaggi”, precisando che la chiesa non era ancora stata consacrata. Lo fu poco dopo, il giorno 21 settembre ad opera del vescovo di Rimini mons. Luigi Santa; e il 24 – esattamente sessant’anni fa- ne fu ripresa l’officiatura con un solenne pontificale di sua eminenza il cardinale Nasalli Rocca, presenti tutti i vescovi della regione, con mons. Giuseppe Lercaro, allora metropolita di Ravenna (dal XVII la Chiesa riminese è soggetta appunto al metropolita di Ravenna), che tenne un’omelia definita di “eloquenza luminosa e vibrante”.
Finalmente l’edificio francescano e malatestiano, fino a quel momento riservato alle cure di Ministero e Soprintendenze, da semplice “monumento” ritornava ad essere edificio di culto, ritrovava la sua vera vocazione e funzione di chiesa cristiana e di cattedrale, cioè di chiesa madre e di sede del Vescovo della città.
Don Domenico Garattoni negli stessi mesi ne rivendicava – nella prima “guida” al Tempio del dopoguerra, edita nel 1951 – il carattere prettamente cristiano, in contrapposizione alle leggendarie e stravolgenti interpretazioni eretiche, eroiche ed erotiche sostenute da buona parte della letteratura precedente. E, pur unendosi al coro di applausi per il restauro felicemente compiuto (ma che al suo inizio era parso “opera ardua, arditissima, ciclopica, un’impresa pazzesca e sacrilega”), con franchezza ne dichiarava i limiti: “il Tempio troppo ha perduto, troppo gli manca, e ci vorranno anni per rifornirlo dell’indispensabile, e – siamo franchi – per ulteriori correzioni e compensazioni, specie nella parte non monumentale”. Aveva ragione, naturalmente. A sessant’anni dalla conclusione di quell’impresa memorabile e da quella doverosa, fastosa riconsacrazione, anche quei limiti sembrano superati, grazie a interventi successivi e specialmente ai restauri dell’ultimo anno giubilare, dopo i quali il Tempio è stato insignito della dignità di “basilica”. Una basilica cristiana che è anche una grande testimonianza d’arte sacra, un capolavoro dell’Umanesimo di cui andare orgogliosi.
Pier Giorgio Pasini