Siamo tutti figli di Pitagora e di Casadei, di Machiavelli e Totò, recita una canzonetta in voga quest’estate. Il testo non brilla certo per profondità, “qualità” che peraltro sembra una costante degli hit estivi, ma indica nel suo snocciolare figure così diverse tra loro, un certo interesse per i padri, per le radici di una terra. Un tema – questo sì, serio – sul quale si interroga il tradizionale “Processo” inscenato a San Mauro Pascoli il 10 agosto. Che quest’anno ha messo alla sbarra non un personaggio storico, bensì un’intera categoria: il Romagnolo. Erede del Passator Cortese e di Mussolini oppure di Pascoli e Fellini?
Culla dei politici più diversi (basti citare Andrea Costa, Benito Mussolini e Pietro Nenni) però anche focosi, ma anche ricca dell’umanità disincantata e saggia di Pascoli e Fellini, quella fetta d’Italia che va dalla via Emilia al mare si è messa in gioco.
Il rischio, in operazioni del genere, è di cadere nello stereotipo che sconfina velocemente nella banalità. L’immagine del romagnolo, com’è venuta a crearsi negli ultimi duecento anni, facilmente alimenta i luoghi comuni. Focosi, passionali e prepotenti per l’immaginario collettivo, secondo antropologi, scienziati e criminologi positivisti, i romagnoli diventano “scientificamente” teste calde, violenti, ribelli, settari, mangiapreti, accoltellatori e stupratori. Gente dalla quale tenersi alla larga, insomma. Eppure altri tratti della vulgata rendono questa categoria ben più simpatica. La fama di impavidi mangiatori, ad esempio, precede il romagnolo ben prima dell’avvento di Lombroso e ne fa campione – l’immagine è dello scrittore riminese Piero Meldini – di “assalti temerari a pentole e casseruole, di sfide all’ultimo boccone”. Estroverso e gran bevitore, votato alla politica e poco propenso a sottostare alla legge, il romagnolo donnaiolo, vitellone secondo la rappresentazione di Federico Fellini, è tutto sommato una figura rassicurante.
Come la luna, però ha una faccia in ombra, ed è quella sulla quale ha puntato Eraldo Baldini, scrittore e avvocato difensore al Processo. Per lui il ritratto standard del romagnolo è abbastanza veritiero ma non va dimenticata la vena malinconica, romantica e perfino noir: “qui convivono realtà rurali e capitali del turismo, discoteche trendy e le tivù locali dai palinsesti dalla romagnolità più deteriore.”
Ma questo romagnolo “è davvero focoso e irascibile, generoso e ospitale, violento e tenero, come i galli del villaggio di Asterix? – si chiede Roberto Balzani che al Processo ha guidato l’accusa insieme al collega Maurizio Ridolfi – o piuttosto di questo cliché oggi non sopravvive in realtà molto al di là delle narrazioni consolatrici che gli autoctoni offrono di se stessi?”.
Anche le caustiche immagini con cui comici come Giuseppe Giacobazzi e Paolo Cevoli, dipingono i loro conterranei mettendoli alla berlina, non sono in fondo analisi consolatorie?
L’autoassoluzione rispetto ai traumi della propria storia e la costruzione postuma di miti non è però prerogativa dei comici: invece di guardare alle proprie tradizioni e consuetudine come risorse, la Romagna ha preferito costruirsi in modo postumo miti sociali (il Passatore “brigante buono” rispetto alla difficile integrazione nello Stato unitario in costruzione), politici (la “terra del Duce” rispetto alla diffusa prassi di demonizzazione dell’avversario politico) e letterari (la poesia del Pascoli come idealizzazione della “piccola patria”).
La giuria popolare ha mostrato clemenza: con 315 voti a favore e 90 contrari (e tanti astenuti), il pubblico accorso in massa alla Torre pascoliana ha assolto il Romagnolo. Forse non più all’altezza della tradizione che ha alle spalle, incapace di immaginare, come ha fatto notare lo storico Roberto Balzani che guidava l’accusa, povero di idee collettive e malato di enfasi localistica e campanilistica, ha rincarato la dose il collega Maurizio Ridolfi (Università della Tuscia) ma in fondo «brava gente». L’impressione però è che il romagnolo (ma non solo lui) non sia più così sicuro delle sue radici, né forse è così interessato a conoscerle davvero. Le cita, le evoca, troppo spesso le scambia per fantasmi dei quali non resta nulla alla prima folata di garbino.
Paolo Guiducci