Emilio e la Russia. La storia dell’uno si è incrociata con la storia dell’altra. Le vicende di un giovane riminese, i suoi sogni e un futuro infranto tra i freddi ghiacci di una terra che non ha perdonato, in una guerra che non ha perdonato.
La morte di Emilio Golfieri è stata “stabilita” al primo febbraio 1943. Attraversata da nessuna incertezza la data di nascita: Rimini 19 luglio 1922. Una vita di appena 21 anni, quindi, raccontata attraverso una raccolta di documenti e di testimonianze da Claudio Golfieri, nipote di Emilio, che ricostruisce brevemente le vicende della famiglia e ripercorre le tappe dell’ultimo periodo dello zio mai conosciuto. Tante le foto che completano il piccolo libretto Emilio Golfieri, da Rimini alla tragica fine sul fronte russo, che raffigurano sia Emilio sia scene da quell’orribile guerra.
La giovinezza
Più grande di quattro figli, Emilio, entra molto presto nel collegio “Carlo Felice” (area Palazzetto dello sport, lungo la via Flaminia a Rimini) e vi rimarrà anche dopo la prematura morte del padre (aveva appena 34 anni). Non rimarrà sempre a Rimini, ma verrà avviato anche al collegio dei Ferrovieri di Porto San Giorgio dove resterà sino ad avere come titolo di studio quello del secondo Tecnico Industriale Inferiore. Questo titolo gli permetterà di lavorare, percorrendo le orme del padre, in ferrovia come aiuto macchinista. Poi la guerra.
La chiamata alle armi
Per raccontare quell’ultimo periodo della vita di Emilio e quel pezzo di storia, Claudio Golfieri si affida alla testimonianza di Aurelio Gudi, pubblicata nel 1997 da Bruno Ghigi in La tragedia italiana sul fronte russo 1941-1943. Immagini di un sofferto sacrificio nel quale si racconta di un incontro, sul fronte russo, tra Gudi ed Emilio Golfieri.
Si legge:«Partimmo il 4 ottobre 1942 da Bergamo, con una tradotta di carri bestiame che, dopo un viaggio di tredici giorni, ci portò a Kiev. La dotazione di vestiario comprendeva un pastrano con due coperte, uno zaino con dentro maglie, calze, gallette da mangiare e della carta da lettere. A mezzogiorno, quando ci fermavamo nelle stazioni trovavamo un rancio caldo, mentre la sera si cenava con scatolette e gallette. A Kiev ci si fermò per due giorni per riposarci delle fatiche del lungo viaggio. Siamo stati confinati in scuole trasformate in caserme finché, il terzo giorno, ci si rimise in marcia, a piedi verso il fronte. Si camminava per 60-70 chilometri al giorno per strade polverose e spesso fangose. Dopo circa un mese raggiungemmo Podgornoje a poca distanza dal Don. A metà novembre c’erano già circa 40 centimetri di neve con una temperatura che si aggirava sui -35/40 gradi. (…) La mia divisione, la Vicenza, aveva in dotazione un cannone anticarro da 47/32 a cui attendevo con l’incarico di puntatore. Quel cannone poteva fermare i carri armati russi, ma solo se si riusciva a colpirne i cingoli o la torretta in modo da immobilizzarlo, altrimenti non gli si faceva nulla! Con quel cannone, poi, non potevamo sparare ai nostri nemici appostati al di là del Don perché dalla bocca della canna usciva una tale fiammata che i russi riuscivano a localizzare immediatamente la nostra posizione. Una volta scoperti, i russi rispondevano al nostro fuoco con i loro katjuscia, riversando su di noi un fuoco infernale che ci costringeva a stare rintanati nei bunker. (…)
La cattura a Podgornoje
A Podgornoje passammo un momento drammatico perché mentre ci trovavamo in mezzo a due magazzini pieni di ogni ben di Dio, con montagne di maglie di lana, scarpe, cappotti, improvvisamente sulla massa dei soldati sono piombati due aerei russi mitragliando. Con prontezza di spirito ho preso un mio amico e ci siamo rifugiati sotto una montagna di maglie e così ci siamo salvati, mentre molti altri sono stati uccisi. (…) Alle quattro del mattino (del 18.01.1943) i comandanti della colonna mandarono in perlustrazione una pattuglia per vedere se nei dintorni c’erano soldati russi o meno. Della pattuglia faceva parte un certo Golfieri del Borgo di San Giuliano di Rimini. Con Golfieri ero molto amico, eravamo sempre insieme e mi ricordo che durante la ritirata si era messo a tracolla un paio di stivali nuovi presi nel magazzino di Podgornoje pieni di maccheroni e mentre lui camminava davanti a me io ogni tanto gli prendevo i maccheroni. Questi miei furti lo facevano arrabbiare e mi gridava: “lascia stare, basta, che vogliamo cuocerli più avanti”. Invece, purtroppo non siamo riusciti a cuocerli perché la pattuglia mandata in avanscoperta non tornò indietro, intercettata dai carri armati russi fu annientata. Mentre la pattuglia aveva preso una direzione noi avevamo deviato in una vallata dove i russi non potevano vederci. Durante la ritirata al nostro seguito portavamo anche una mucca che abbiamo ucciso nella vallata e diviso in tanti pezzettini per i cento, circa, soldati che eravamo. Giunti in un piccolo paese siamo entrati nelle isbe e ciascuno di noi ha messo la carne nella gavetta per cuocerla sul fuoco. (…) Pochi attimi dopo sono entrati (i russi, ndr) nell’isba urlando zdaiussa (arrendetevi), e con alcuni calci hanno rovesciato per terra le nostre gavette e ci hanno spinto fuori all’aperto dove c’era ad attenderci una lunga colonna di prigionieri».
Di Emilio…perse le tracce
Il racconto di Gudi continua ancora. Quando Claudio Golfieri andrà ad ascoltarlo lui gli dirà che Emilio è stato fatto prigioniero tra il 19 e il 20 gennaio del 1943, circa due giorni dopo che i due hanno lasciato Podgornoje. Rispetto a quell’evento Claudio Golfieri scriverà:
“Aurelio Gudi dichiara di non sapere, e noi non sapremo mai, se Emilio sia stato vittima di annientamento assieme alla pattuglia da parte dei carri armati russi. Dato che di quella pattuglia nessuno è tornato indietro non è da escludere l’ipotesi della cattura dell’intero gruppo. In tale verosimile ipotesi il calvario di Emilio potrebbe essersi protratto fino ai terribili campi di prigionia”. Di Emilio non si è saputo più nulla. Qualcuno della famiglia ha anche ipotizzato che sia, oppure sia stato, vivo in Russia, che si sia rifatto una vita. Claudio ha dei dubbi rispetto a questa ipotesi, infatti scrive: “Se fosse vivo saremmo ben felici di saperlo, ed è ciò che ancora oggi ci auguriamo. Certamente non partì con l’intenzione di allontanarsi dalla famiglia, tanto è vero che scrisse più volte a casa. Nell’ultima lettera pervenuta, Emilio si trovava in una grotta con i piedi congelati…”. Ad ogni modo: tra 65mila e 80mila sono stati gli italiani fatti prigionieri dall’esercito russo. Di questi solo 10mila riuscirono a fare ritorno.
Angela De Rubeis