A proposito di anniversari e di film «santificati» o «scomunicati» viene spontaneo in questi giorni ricordare il caso de La dolce vita, «santificato» da un gesuita, Nazareno Taddei, e «scomunicato» a suo tempo dal Vaticano, Osservatore Romano in testa.
La vicenda di padre Taddei e del «film scandalo» di Federico Fellini è nota: 50 anni fa il gesuita del San Fedele di Milano fu mandato in esilio per una recensione favorevole a La dolce vita pubblicata su Letture del marzo 1960. Quello che invece non è noto è il fatto che Taddei avesse preparato un testo che doveva accompagnare la recensione e spiegare le conseguenze soprattutto della reazione negativa di molti ambienti cattolici all’uscita del film.
Il testo, che Taddei aveva intitolato «Vita non dolce», è rimasto inedito. In un biglietto, trovato insieme al dattiloscritto, si legge: «Articolo che Nat (sigla che sta per Nazareno Taddei, ndr) voleva venisse pubblicato assieme alla recensione della Dolce vita e che invece non si volle pubblicare». L’intento del gesuita studioso di cinema era chiaro perché nel testo inedito, ad un certo punto, si legge che «in altra parte della rivista ci siamo sforzati di dare un’analisi cinematografica e morale del film stesso».
Dunque il testo «non si volle pubblicare», ma Taddei non rinunciò all’idea della pubblicazione tanto che continuò a lavorarci. Lo dimostra una seconda versione, frutto di numerose correzioni a mano sulla copia carbone del primo testo. Ma anche questo secondo è rimasto inedito e poi forse dimenticato assieme al primo.
Entrambi, riordinando a La Spezia gli archivi del religioso, sono saltati casualmente fuori proprio a 50 anni da La dolce vita. Si tratta di un ritrovamento importante, che getta ulteriore luce sulla vicenda che portò padre Taddei suo malgrado alla ribalta.
Il gesuita era convinto che Fellini, se non fosse stato osteggiato dai cattolici sarebbe diventato «il cantore della Grazia»: con La dolce vita Fellini, spiegava Taddei, «si era messo su questa strada: voleva parlare della spiritualità del cristianesimo. Ma rimase talmente turbato e amareggiato da quell’accoglienza che nel film successivo, Otto e mezzo, film pagano all’acqua di rose, se la prese con la Chiesa ufficiale».
Ma cosa aveva spinto Taddei a dire che La dolce vita trattava il tema della Grazia?
«La “lettura” del film», rispondeva: «La “lettura” del film esplicitata dalle immagini iniziali (con l’arrivo della statua di Cristo in elicottero) e finali quando il protagonista, Marcello, quasi ubriaco di stanchezza dopo una notte di bagordi, si trova con un gruppo di persone in riva al mare, e Paolina, la cameriera che aveva impressionato Marcello per la sua grazia innocente, si trova sorridente al di là di un piccolo braccio di mare a chiamarlo. Marcello la vede, ma non capisce e se ne va trascinato via da una delle donne del gruppo. Paolina continua a sorridere, come a dire: “Vai pure, al prossimo bivio mi troverai ancora lì ad aspettarti!”. La “lettura” era evidente, ma mi sembrava difficile che Fellini avesse voluto esprimere un tema così… teologico. Nei nostri incontri non si era mai parlato di “Grazia”. Un giorno gli chiesi: “Cos’è secondo te la Grazia?”. Mi rispose di botto: “Che cos’è la Grazia se non quella realtà, come Paolina, che tu non capisci e la rifiuti, ma lei sorride e ti dice: Vai pure! Mi troverai sempre ad aspettarti?”. Risposta teologicamente perfetta, espressa però con linguaggio non da trattati teologici, ma a parole semplici, che sintetizzano il discorso che aveva con immagini tutt’altro che devote. Per questo, forse, il film ha scatenato tante ire».
Da qui l’amarezza di Taddei e le «considerazioni» contenute nel primo inedito che viene pubblicato ora, assieme al secondo, dalla rivista Edav – Educazione audiovisiva in un numero speciale dedicato allo stesso Taddei a quattro anni dalla morte.
La prima considerazione è che le proteste dei cattolici finirono per spingere la «massa in maniera mai vista nelle sale dove il film veniva proiettato. Di più, la gente – scrive il religioso – correva al film attratta da una sorta di curiosità morbosa e dal timore di non riuscire mai più a vederlo nell’eventualità di un ritiro da parte della censura». Altro motivo di desolazione era per Taddei il fatto che alcuni cattolici avessero scritto del film senza averlo visto.
«Il primo ad addolorarsi dello spirito con cui il popolo italiano è accorso a vedere il film – rivela l’inedito – è stato proprio Fellini, l’uomo cioè che, secondo le parole degli accusatori del film, è l’uomo senza morale, è il pornografo. Fellini ci diceva: “Ho fatto un film con la convinzione che possa fare del bene, non per appagare istinti morbosi; credevo di essere aiutato a preparare il pubblico a cogliere nel mio film quello che c’è di elevato, ed invece è con profonda amarezza che mi sono accorto del tentativo di distruggere proprio questa parte di successo che era quella alla quale tenevo di più”.
«Sbagli di questo genere, nell’apostolato cinematografico italiano, se ne sono ripetuti moltissime volte; sarebbe ora veramente che una tale situazione cambiasse, che si formassero degli esperti e si ascoltassero quelli che già ci sono, che non si cercasse di denigrare gli esperti che pensano diversamente da questi cattolici presuntuosi e sarebbe il momento di cominciare a studiare e affrontare con intelligenza questi problemi che sono stati lasciati finora all’arbitrio di pochi incompetenti».
I cattolici, a giudizio di Taddei, non avevano capito che il film era «veramente positivo e veramente cristiano; un film fatto da un uomo che dimostra di essere grandissimo artista e sulla via di una maturazione spirituale non indifferente. Abbiamo esaltato nel passato film ben più deboli spiritualmente, ben meno eccelsi artisticamente e li abbiamo portati come campioni di una cinematografia cristiana. Oggi che ci appare un film che, benché non direttamente religioso, benché non esplicitamente tematico o predicatorio tratta però un problema sotto un preciso profilo spirituale cristiano, fa sentire la nostalgia verso un mondo di purezza e di sanità morale, fa sentire lo schifo per quella vita non morale che il cristianesimo condanna, ora, dico, che un tale film appare, ci si scaraventa addosso e si cerca di demolirlo in ogni maniera ricorrendo perfino alla calunnia e all’ingiustizia».
Nel secondo inedito, in cui il gesuita ribadisce: «Quando un gruppo di noi (del San Fedele, ndr) vaglia insieme le ragioni di un giudizio, è lecito sperare che le possibilità di sbagli siano minori, comunque sempre minori delle possibilità di sbagli di un laico che non ha studiato teologia, che non è dedito esclusivamente a questo lavoro e che non ha nemmeno questi contatti diretti col pubblico in funzione dell’apostolato cinematografico».
Taddei ha sempre dichiarato di aver obbedito ai suoi superiori che gli diedero l’incarico di fare una lettura «ponderata e oggettiva» senza preoccuparsi «delle voci di polemica» che già erano venute fuori a conclusione dell’anteprima del film allo stesso Centro San Fedele.
«Rividi il film diverse volte – raccontava Taddei – e per ben dieci giorni e quasi dieci notti studiai la lettura». Ne parlò più volte anche con Fellini. Tentò persino di essere dispensato dall’incarico, ma i superiori imposero a Taddei la «santa obbedienza». Dopo aver steso la lettura fu affiancato da altri gesuiti, quelli del «gruppo» di cui si diceva, che insieme, dopo aver studiato il testo «parola per parola», «si assunsero la responsabilità del lavoro». Solo la firma rimase una sola: Nazareno Taddei sj.
Arrivarono gli attacchi dell’Osservatore Romano, della Civiltà cattolica e il 19 maggio 1960 l’ordine di partire in esilio.
Cinquant’anni sono passati e chissà che oggi, dopo aver dichiarato The Blues Brothers film cattolico non si possa rivedere anche quel giudizio su La dolce vita.
Andrea Fagioli