Lo spostamento, la migrazione si è rivelata – come tutte le cose legate alla natura umana – una medaglia, e come tale portatrice di due facce.
Gli emigranti in terra nuova a “coltivarla” e farla crescere e crescere insieme, da una parte. La terra vecchia, la natia, lasciata pressoché all’abbandono, dall’altra.
Questo è successo in tutto il meridione d’Italia, che la storia ha privato delle sue generazioni migliori: delle giovani famiglie, dei giovani lavoratori e delle loro mogli, portatrici di una cultura secolare, e infine dei figli e dei figli dei figli.
Un impoverimento cui troppo poco spesso si fa caso o cenno ma che ha costantemente contribuito allo scivolamento e invecchiamento del Sud dello stivale. Qui, nonostante tutto, si continua a vivere e riprodurre quella cultura che è cultura d’Italia.
U scògghju. Uomini e pescatori, da Lampedusa a Rimini. Appunti e immagini di una migrazione, di Pietre de Vejelì (edizioni Pietroneno Capitani) racconta un pezzo di questa storia d’Italia che si è consumata tra la banchina del porto di Rimini e u scògghju (lo scoglio), appunto, come i lampedusani amano chiamare la loro isola lontana.
A muovere questa “colonia”: volontà, forza, voglia di riscatto, competenza e soprattutto fame. Non si può far finta di niente. L’onestà intellettuale e di vita che ha accompagnato questo piccolo popolo “in movimento” ci inchioda ad ulteriore onestà, a chiamare le cose con il loro nome: la fame con la fame. C’è un proverbio, che il tempo non ha cancellato dalle bocche di queste persone, che ben fotografa questa vicenda di viaggio: “A fami è fami. E a guerra è guerra. E quandu è guerra è guerra pi tutti” (La fame è fame. E la guerra è guerra. E quando è guerra è guerra per tutti).
Il volume ricostruisce la storia di questo esodo, le origini di un riscatto in terraferma, le caratteristiche dei territori e delle persone. Le loro vite oggi.
Da Lampedusa a Rimini: perché?
L’economia lampedusana del dopoguerra è stata uno sfacelo. È in questo momento, infatti, che in molti partono verso il Nord. Lampedusa era solo un puntino su di una carta geografica. Poi, nel 1986 Muammar Gheddafi decide che è tempo di ferire l’Italia e allora punta e sgancia, in direzione dell’isola, due missili SCUD e la “terraferma nazionale“ si accorge della sua esistenza. Nasce da qui la seconda vita dell’isola imperniata sulla notorietà e il turismo. Poi, negli ultimi anni arriverà anche la notorietà legata agli sbarchi clandestini di altri immigrati, ma questa è un’altra storia.
Prima dei missili, l’economia era la pesca e, strettamente legata ad essa, l’industria della lavorazione del pescato. Attività già nota e ben fiorente nella seconda metà dell’Ottocento, cento anni dopo e ancora oggi, seppur in minore quantità, resiste. In 150 anni circa questo “lavoro” ha fatto da costola all’economia per un motivo ben preciso: perché ci lavoravano le donne e i bambini, ognuno con una mansione diversa. I bambini erano destinati alla decapitazione della materia prima (sgombri e acciughe) nonché al loro sventramento. Le donne, con le loro piccole e accorte manine pensavano alla pulitura e spinatura dei filetti di pesce e alla loro collocazione in latte e barattoli. Infine, agli uomini non rimanevano che i lavori più duri compresa la chiusura dei barattoli.
Radicata nel territorio questa “poetica” attività resiste. E, grazie ad essa, ricorda nel volume Don Pino Brignone (personaggio folcloristico dell’isola nonché autore di deliziose poesie) molte famiglie sono state in grado di costruirsi una casa grazie al lavoro nelle baracche (così si chiamavano gli stabilimenti dove si lavorava il pesce).
Piccoli passi verso la civiltà
La Seconda guerra mondiale fa, fortunatamente, poche vittime ma distrugge l’isola spingendola, più di quanto non fosse già, nell’arretratezza. Alcune tappe, però, segnano la ripresa: nel 1951 arriva l’energia elettrica e appena due anni più tardi si dà inizio alla produzione del ghiaccio, cosa fondamentale per le attività di conservazione del pesce. Verso il finire degli anni ’70 si assiste ad una vera e propria svolta tecnologica: arriva il telefono, il primo canale televisivo (la terza rete Rai arriverà sul finire degli anni ’90) e, cosa molto importante, il dissalatore. Questo “baraccone” che leva il sale dell’acqua è una vera conquista moderna anche perché sull’isola non esistono vene d’acqua dolce. A fine anni ’70 arrivano, poi, le scuole e l’ambulatorio medico (non può definirsi un ospedale).
Intanto a Rimini…
Mentre Lampedusa fa i suoi piccoli passi verso la civiltà, Rimini, con un decennio d’anticipo (siamo negli anni ’60) vive il suo boom turistico. Le risorse di contadini e imprenditori locali nonché tutti gli sforzi politici vengono dirottati in direzione di questo emergente e promettente settore. Mentre, rimane sullo sfondo il settore della pesca che si dimostra, quindi, inadeguato e poco organizzato soprattutto incapace di fronteggiare le richieste di pesce dettato dall’incremento della presenza turistica sul territorio.
Si legge nel testo una descrizione di come veniva vissuta la pesca a Rimini, dai riminesi, negli anni ’60:
«Il pescatore riminese usciva al mattino presto per rientrare dopo alcune ore; il suo bacino di pesca era poco distante dalla costa. Sul molo lo aspettava la moglie che prendeva in consegna il pescato mentre lui a quel punto poteva andare a riposare; (la dòna de’ pòrt ul mitiva a lét), scrive Guido Lucchini in una famosa commedia. Il pesce era venduto sulla banchina del porto oppure al mercato, sui banchi in marmo della Piazzetta delle Poveracce, adiacente a Piazza Cavour. Sovente però (…) partivano verso la campagna, talvolta fin sulle colline, per vendere il pesce ai contadini. Nei miei ricordi di bambino ricorre frequentemente l’immagine di queste venditrici che pedalano di casa in casa richiamando l’attenzione dei loro clienti con urla declamatorie sulla qualità del pesce: “Doni, pèss…pesce fresco!”».
Così dove non arrivavano i pescatori riminesi si insinuarono gli anconetani, i sanbenedettini, i fanesi. Loro sono arrivati per primi a vendere, a vendere in quel porto “vivace” di turisti. Si legge, ancora:
«Luigi Calderoli, classe 1937, è uno di quei pescatori machigiani, imbarcato ad Ancona fin da bambino; ricorda che “Alle quattro del mattino si veniva a Rimini a vendere il pesce; poi si tornava ad Ancona, giusto in tempo per andare a scuola. Qui si vendeva bene, c’era molta domanda”. Nei primi anni Cinquanta erano circa 50 le barche che da fuori venivano a vendere il pesce a Rimini».
È su questi pescherecci che sono imbarcati i lampedusani che per primi arrivano nel porto riminese. Vedono, qui, delle potenzialità e con l’appoggio di alcuni imprenditori locali cominciano a costruire le prime imbarcazioni. Giorgio Savini e Alberto Corazza furono i primi a “mettersi in affari” con questi uomini di mare. Loro mettevano i soldi e i lampedusani ci mettevano la conoscenza del mestiere, la passione e la voglia di fare. Di loro, Corazza dirà: “I lampedusani sono dei veri marinai, sono nati marinai e noi li abbiamo aiutati. Sono nati sul mare e non hanno niente altro nella testa”.
Angela De Rubeis