Claudio Marabini (scomparso a 79 anni il 16 giugno nella natìa Faenza) è stato un onesto scrittore e studioso di letteratura. Ha tenuto fede soltanto all’impalpabile desiderio di capire e raccontare l’Italia del secondo Novecento. La sua Romagna era quella riassunta da Tonino Guerra per Le città dei poeti (1976). Marabini gli chiede che effetto gli abbia fatto partire da Santarcangelo verso la capitale per lavorare nel cinema. Guerra risponde: “Nessuno. Mi fece effetto arrivare! Avevo trentadue anni e Savignano era il mio confine”. Quel mondo chiuso e isolato che chiamiamo provincia, è poi un’altra piazza, quella di Cesena dove s’affacciava Renato Serra, intellettuale che più europeo di lui non ce ne sono stati molti.
E di Serra nel 1992 Marabini cura un volume antologico attorno al famoso Esame di coscienza di un letterato (1915), uno dei testi più studiati da varie generazioni di critici che fanno degna compagnia a Marabini: De Robertis, Carlo Bo, Isnenghi, Biondi ed Ezio Raimondi.
Di un altro famoso Raimondi, Giuseppe, Marabini ricorda nel 1976 l’esemplare attaccamento alle radici della sua città, che è bello riproporre oggi quando si cerca l’altrove e non si conosce il nostro qui. Dunque “Giuseppe è nato a Bologna, a Bologna ha sempre vissuto, da Bologna ha tratto spunti, motivi, personaggi, ambienti” per romanzi, racconti, memorie, saggi di letteratura e d’arte, vivendo “come imprenditore di impianti di riscaldamento. In altre parole, aveva un’officina di termosifoni e stufe: una bottega, come dice lui: da stufaio, come dicono a Bologna”.
Marabini ha divulgato l’Italia e la Romagna delle radici. Lo dimostra parlando con Riccardo Bacchelli che gli confida: “L’emiliano è più turbolento del romagnolo. Io sono tanto emiliano che faccio netta distinzione fra emiliano e romagnolo”. E poi, c’è il ricordo di Marino Moretti “tipicamente romagnolo nella parte sua più popolare: romagnolo della costa”, di Francesco Serantini (“romagnolissimo”), e di Giovanni Pascoli, una specie di capostipite.
Proprio a Pascoli poeta e uomo nella vita quotidiana, Marabini dedica un lavoro del 1973, Il dialetto di Gulì, delizioso e rivoluzionario saggio che ruota attorno a questa premessa: “È stato Gulì, il cane, a mettermi in traccia del dialetto romagnolo nel Pascoli”. Il libro conserva intera l’emozione che l’autore vi ha depositato, e che il lettore rivive attratto dallo stile di Marabini, fatto di analisi capaci di spiegare un discorso complesso con i termini più semplici del vivere comune. Come quando annota che la parola “Zvanì” è “il segno tangibile del passato, la sua incarnazione nell’alito di un’ombra. È la voce dell’aldilà, la più alta e più significante…”.
Nel 1994, Marabini ricevendo a Ferrara il premio Estense per il volume Voci e silenzi di Romagna dedica la vittoria alla memoria di Giovanni Spadolini: “Fu quel giovane direttore de il Resto del Carlino che oltre 35 anni fa mi incaricò di scrivere i pezzi «di colore» che sono il corpo e l’anima del mio libro”. Altri giornali.
Antonio Montanari