Emicrania, mal di schiena, artrosi, nevralgia… Chi, almeno una volta nella sua vita, non ne ha sofferto. E chi non si è sentito dire “non ti preoccupare che ti passa”. Già, ma se non fosse vero? Se non passasse? Se, anzi, diventasse cronico? Del resto, in Italia, sono 12 milioni le persone che soffrono di un dolore di questo tipo. Negli ospedali il 60% dei pazienti lamenta un problema costante, che poi sia moderato o severo conta poco. Di fronte a tali numeri, cosa fare? Ci sono cure appropriate? Di tutto questo se ne è discusso in un recente convegno promosso dall’Ausl, mirato a presentare l’esperienza riminese sul “controllo del dolore e le terapie palliative”.
“Il dolore – hanno detto i medici – è un sintomo diagnostico molto utile ma, se persiste e si cronicizza, diventa esso stesso una malattia. Il dolore cronico o persistente, colpisce il 20% della popolazione (anche giovanile) e se non viene adeguatamente trattato, la sofferenza che ne consegue porta ad un peggioramento della qualità della vita, isolando e compromettendo i normali rapporti sociali della persona”.
E i dolori sono davvero una gamma infinita, partendo da quelli post-operatori, al travaglio, a quelli da trauma, da ustione, da sclerosi multipla, da mastectomia, da toracomia…
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La domanda, allora, sorge spontanea: ma è possibile che il progresso scientifico non sia riuscito a trovare nuove terapie per gestire il dolore?
“Ci sono casi in cui è difficile gestire adeguatamente il dolore eppure, se in tutti i reparti ospedalieri si sfruttassero le possibilità attualmente esistenti, si potrebbe fare molto di più per i nostri pazienti – sottolinea il dottor Marco Balestri dell’U.O. Terapia Antalgica e Cure Palliative dell’Infermi – in molti casi l’universo dolore continua ad essere sottovalutato; il problema non è tanto scoprire qualche nuovo farmaco per controllarlo, perché gli strumenti esistono e gli specialisti li conoscono bene, ma il fatto è che non vengono usati a sufficienza”.
La storia ha radici profonde. Nel 2001 Umberto Veronesi, quand’era Ministro della Salute, fece approvare una legge per facilitare l’impiego della morfina nella terapia del dolore; fino allora il suo uso veniva sistematicamente ostacolato da una severissima norma che la rendeva quasi inaccessibile. Per prescrivere morfina, ai medici, infatti, venivano imposte procedure burocratiche “borboniche” e in caso di errori formali, si incorreva nel grosso rischio di subire pene per incriminazione per spaccio (due anni di carcere) o multe fino a 4 milioni di vecchie lire (tutto questo anche per i farmacisti e per chi consegnava a casa del paziente).
“Per questi motivi i medici stavano alla larga dalla morfina quasi fosse dinamite – continua Balestri – risultato, l’Italia è al 101° posto al mondo (tra la Lituania ed il Marocco) per uso di oppioidi: 46 dosi prescritte pro-die per milione di abitante contro i 541 della Germania, i 1.462 della Francia e i 6.430 della Danimarca”.
Ma con l’entrata in vigore della nuova legge (n° 38 del 15 marzo 2010) non sono cambiate le cose?
“Alcuni medici lasciano ancora soffrire i malati. Credono ancora, malgrado le autorevoli smentite scientifiche, che la morfina crei tossicodipendenza. Non solo non è vero, ma se usata in modo appropriato, i suoi effetti collaterali sono inferiori a quelli di tanti altri farmaci. Occorre veramente smetterla di chiamarsi fuori da un’azione terapeutica così efficace nella quale certi medici non se la sentono di impegnarsi. Oltretutto, il dolore costa all’economia italiana 3 milioni di ore lavorative e oltre 3 milioni di euro in farmaci e prestazioni mediche”.
Ultimi rilevamenti
Tornando alla legge dello scorso marzo, essa regolamenta che nella cartella clinica del paziente sia introdotta la misurazione del dolore come 5° parametro vitale. Questo avrà contribuito ad un maggior consumo di farmaci anti dolore almeno in ambito ospedaliero?
“Senza ombra di dubbio – conferma il dottor Fulvio Fracassi, dell’U.O. Anestesia e Rianimazione dell’Infermi nonché responsabile del Comitato Ospedale senza Dolore – all’interno della nostra Ausl l’utilizzo dei farmaci specifici per contrastare il dolore inutile è aumentato del 10% negli ultimi due anni. Come Ospedale senza Dolore lavoriamo per creare un livello trasversale di controllo di gestione e di sensibilizzazione al dolore perché, anche in ospedale, questa componente è sempre presente. I pazienti vengono per risolvere un problema specifico, ma spesso non si pensa che c’è anche una componente di dolore che può e deve essere controllata”.
In quale fascia di età rientrano i pazienti che più spesso vengono ricoverati?
“Sopra i 70 anni, e fino ai 75 sono soprattutto uomini, dai 75 in avanti, donne”.
Le persone ricoverate provengono anche da fuori Rimini?
“Sì. Del resto il nostro centro di Terapia Antalgica è un punto di riferimento certo in Italia. Abbiamo varato il progetto Cento Città contro il dolore che serve per dare voce ai bisogni delle persone colpite da dolore persistente e a sviluppare una rete di solidarietà, scientifica e sociale, che metta in collegamento medici di tutt’Italia che si occupano di terapia del dolore cronico ed oncologico”.
Il ruolo della Fondazione
A tal proposito la Fondazione Isal ha redatto un manifesto che si prefigge di sensibilizzare e informare la popolazione sul tema del dolore; riconoscere il dolore cronico come malattia da prevenire e curare; sostenere le iniziative sanitarie volte a prevenire e gestire la cronicità; rendere rimborsabili i farmaci e disponibili gli strumenti di diagnosi e cura; promuovere la raccolta di fondi per la ricerca; favorire un percorso formativo specialistico e chiedere ai media di dare il loro contributo nella battaglia contro il dolore. Da Rimini sono partiti oltre cento medici, formati all’Istituto ISAL dal professor William Raffaeli: chi si è recato a Catanzaro chi a Padova, a Torino e chi a Palermo.
“Questi giovani medici hanno imparato da noi un nuovo modello di cultura sanitaria favorendo il progetto Train To Trainer, ovvero ognuno aiuti l’altro a sapere e a curare. D’altronde la missione di Isal è che il dolore non condizioni la vita”.
Cosa che accade, invece, troppo spesso nei pazienti colpiti da tumore.
“Per il paziente oncologico – spiega il dottor Davide Tassinari – le componenti principali del dolore sono quelle di vivere in un costante stato di abbandono, con perdita di fiducia e bisogno di supporto. Abbiamo un ambulatorio di medicina palliativa e quando siamo chiamati dal medico di famiglia, andiamo a fare le visite a casa di questi pazienti. Uno dei problemi più grandi per un 30-40% è che i malati sono legati ad una visione che è un po’ distorta della loro situazione, visto che spesso il dolore è sottovalutato dai medici stessi. Il dolore non è qualcosa da sopportare come espiazione; ci sono sistemi di cura che possono alleviarlo e un nostro obiettivo è promuovere la cultura del sollievo con la consapevolezza che il sollievo non è solo desiderabile ma possibile”.
“Dobbiamo tutti renderci conto – conclude il dottor Silvio Costantini, dell’U.O. di Geriatria – che è giunto il tempo di cambiare registro: si deve passare dalla cura al prendersi cura”.
Possibilmente senza dolore.
Laura Prelati