1. “Eucaristia”, nella nomenclatura cristiana, è voce primaria e sintetica: appartiene alla piccola grande famiglia delle parole maiuscole che compongono il dizionario di base della nostra fede, e nel breve frammento delle sue sillabe si concentra e racchiude il tutto del cristianesimo. Sì, l’Eucaristia è il tutto nel frammento. Mistero tremendo e affascinante, è il centro e il vertice della vita cristiana, il tesoro più caro nel sacro patrimonio della santa Chiesa. È il dono più prezioso avuto in eredità dal suo Signore, il segno che meglio la identifica, il sostegno della sua missione, il pegno della meta che ci attende: la vita eterna. Ma se l’Eucaristia è tutto questo, se è un sacramento per soli cristiani, se è il nostro bene più intimo e peculiare, perché non tenerlo gelosamente conservato e scrupolosamente custodito nei tabernacoli delle nostre chiese? perché portarlo fuori per le strade e le piazze della città?
La risposta è chiara e netta. Sono duemila anni che noi cristiani ci ostiniamo a dire che la dinamica che si scatena dall’Eucaristia non è affare interno della Chiesa, non riguarda solo i credenti: riguarda tutti. Perché l’Eucaristia è la più choccante buona notizia di fraternità che si sia mai udita sotto il cielo, e la sua logica è inclusiva, non esclusiva ed escludente. La “più grande delle meraviglie operate da Cristo” (s. Tommaso) non è un rito esoterico o una realtà magica. Non è una cosa: è una presenza, è Cristo con noi per il mondo. E Cristo non è affatto – come sosteneva uno dei “maestri del sospetto” – “quell’orientale avido di onori nella sua sede celeste” (Nietzsche). Non è lui che ha bisogno di essere adorato da noi, siamo noi che abbiamo bisogno di adorare lui. Perché la sua gloria è la nostra salvezza; è la vita del mondo. E noi, come cittadini cristiani, siamo convinti che il vangelo rappresenti la mappa più affidabile per scoprire il tesoro dei valori che fanno il vero capitale della nostra città e dei suoi abitanti.
2. Torniamo al vangelo (Lc 9,12ss). Il brano della moltiplicazione dei pani non è semplicemente la dimostrazione della potenza strabiliante di Gesù ed è molto di più che la manifestazione della sua premurosa, tenerissima bontà. È piuttosto la rivelazione di chi è Gesù e l’esemplificazione della fecondità della sua logica: la logica esigente e pacificante della condivisione. Abbiamo ascoltato: nel dialogo tra Gesù e i Dodici, si scontrano due leggi: secondo i discepoli, tocca alla gente andare a comprarsi da mangiare. Ma Gesù a sorpresa provoca i suoi: “Voi stessi dategli da mangiare”. Ecco le due logiche diametralmente contrapposte: quella dei discepoli è siglata dal verbo comprarsi; invece la cifra della logica di Gesù è il verbo dare. Il Maestro non pensa semplicemente a sfamare la gente, ma vuole compiere un segno rivelatore di come Dio vorrebbe che andasse il mondo, se alla legge dell’interesse individuale (dare per avere; ognuno per sé) si sostituisse finalmente quella del bene comune (dare per condividere; tutti per il bene di tutti).
Nel passo parallelo dell’evangelista Giovanni si racconta di Filippo, il quale fa due conti di ragioneria spicciola: duecento denari, una cifra da vertigini, corrispondente al guadagno di duecento giornate lavorative, non basterebbero neanche per dare un pezzetto di pane a ciascuno. Ma dove andare a prendere tutti questi soldi? Supponiamo che questa enorme somma di denaro fosse stata messa a disposizione di Gesù da parte di qualche ricco possidente e i Dodici con quel capitale da capogiro fossero andati a comperare il pane per la folla e lo avessero distribuito alla gente – in effetti è questa la loro ipotesi di riserva: “a meno che non andiamo noi a comperare i viveri per tutta questa gente” – ne sarebbe risultato un gesto di carità, ma non un segno che introduce nei rapporti una logica differente e in grado di rivelare un nuovo volto di Dio.
A sbloccare la situazione fattasi estremamente critica, interviene un gesto imprevisto (cfr Gv 6,9): un ragazzino mette nella mani di Gesù tutto quello che la mamma gli ha preparato: cinque panini d’orzo e due pesciolini. Quanto egli ha, è appena sufficiente per lui: è la sua vita di quel giorno. Ma, una volta donato a Gesù, quel poco, anzi pochissimo, si moltiplica automaticamente, fino a diventare cibo sovrabbondante per tutti. Ecco la vera soluzione, “firmata” da Gesù: non è la divisione, è la condivisione a produrre la sovrabbondanza dei beni, segno inconfondibile e prova inconfutabile della società del gratuito, profetizzata dal nostro indimenticabile don Oreste.
3. Un altro testimone e profeta del nostro tempo, Giorgio La Pira, amava dire: “Noi dobbiamo costruire una città nuova attorno alla fontana antica”. La fontana antica non può che essere lui, Cristo Signore. Senza paura di venire da lui plagiati o azzerati. Se la nostra città riapre, anzi spalanca di nuovo le porte al Vangelo, non ne risulterà una città diminuita o compressa nel suo potenziale umano, ma, al contrario, ne uscirà più umana, più libera e vivibile.
Ma qual è la città nuova che dobbiamo costruire? Noi sappiamo come è distribuita l’umanità. È come una lunga tavolata, attorno alla quale ci sono cento commensali, di cui trenta si prendono novanta piatti e gli altri settanta si devono accontentare dei rimanenti dieci. Così è distribuita la ricchezza nel mondo. Allora quando diciamo città nuova, vogliamo prima di tutto che ad ognuno tocchi un piatto. Ma questa non è ancora la città nuova attorno alla fontana antica. La città nuova è quando tutti mangiano insieme e dialogano insieme; sono cioè in relazione gli uni con gli altri. La città nuova nasce quando non solo si realizza la giustizia e la solidarietà, ma quando nasce una vera fraternità tra le persone. Questa parola tipicamente cristiana – fraternità – era già presente nella bandiera della rivoluzione francese, ma fu poi cancellata, fino a scomparire del tutto dal lessico politico-economico. Vi è stata reintrodotta da papa Benedetto XVI, nella sua ultima enciclica, Caritas in veritate.
Proviamo a sognarla questa nuova Rimini. È la città della fraternità, la città della gratuità e della condivisione, dove si va oltre la legge della solidarietà. La solidarietà è una forma di attenzione e di sollecitudine nei confronti di altri che versano in situazione di carenza o di necessità. Si tratta di una attenzione non solo affettiva, ma concreta e fattiva, che si traduce in scambio e partecipazione di beni reali. E questo è già un grande orizzonte, ma la logica della fraternità va oltre. Mentre la logica della solidarietà consiste nel trasformare il mio in nostro, la condivisione fraterna consiste nel superare sia la logica del mio che quella del nostro, nell’orizzonte del dono. Ed è proprio il principio del dono che il Papa ci ha richiamato, ricordandoci che “oggi, senza la gratuità, non si riesce a realizzare nemmeno la giustizia” (CiV, n. 38).
La “mistica” eucaristica, insegna Benedetto XVI, ha una sua portata non solo sociale, ma anche economica e politica, e si concretizza emblematicamente nel risultato ottenuto da Gesù: “tutti mangiarono a sazietà”. La sovrabbondanza resta ogni giorno dono di Dio e compito dell’uomo: l’uno, il dono, sempre garantito dalla fedeltà del primo; l’altro, il compito, sempre affidato alla fragile libertà del secondo. Una città fraterna si esprime dunque nella convivialità delle diversità: tutti fratelli e perciò uguali, ma anche tutti diversi e uniti, proprio perché fratelli.
Questa è la città che sogniamo e che, con la forza che ci viene dal pane eucaristico, ci impegniamo a costruire insieme a tutti gli uomini e le donne di buona volontà.
Per questa città nuova noi ora vogliamo pregare:
Donaci occhi, Signore, per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli; infondi in noi la luce della tua parola per confortare gli affaticati e gli oppressi: fa’ che ci impegniamo lealmente al servizio dei poveri e dei sofferenti.
La tua Chiesa sia testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo. Amen.
+ Francesco Lambiasi