“A dì, per mè è uguale sposare un’italiana o una marocchina. Basta che zi segliamo perchè zi piazzamo”. A sentirlo parlare, Salah, è romagnolo fino al midollo. Ha diciassette anni, è tunisino e vive a Ravenna da quando ne aveva dieci. Parlano come lui il fratello, Mohamed Amine, ma anche Meho macedone, Mustapha e Karima, marocchini, e Marie Antoinette, senegalese. Sono i migranti di seconda generazione, i figli di immigrati, che parlano e scrivono più lingue, che fanno coincidere l’essere integrati col sentirsi chiamati a costruire la società della quale fanno parte. Vanno a scuola, fanno volontariato, frequentano locali e lavorano. A differenza dei loro padri, non sono venuti in Italia già adulti e con una famiglia sulle spalle da mantenere, sanno quanto sia difficile trovare un lavoro, per questo, anche incoraggiati dai genitori, molti vogliono studiare.
Nati in Italia o arrivati dopo, non per scelta loro, non sono disposti a subire la decisione dei loro genitori, vogliono esserci. Vogliono raccontarsi e raccontare quello che vedono, che leggono sui giornali, che vivono dentro casa, spesso in bilico tra una famiglia conservatrice legata alle tradizioni della terra d’origine, ancora di più da quando è lontana, e un fuori, che li apre a una miriade di possibilità.
Raccontare per raccontarsi
Lo hanno fatto, grazie al progetto Pillole di Identità, finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali che ha permesso a ventisei ragazzi dai 15 ai 25 anni, italiani e stranieri di seconda generazione, di realizzare dieci cortometraggi sul tema dell’identità in cui hanno raccontato scelte, aspettative, timori e progetti di vita degli italiani di domani. Capofila del progetto è il comune di Cesena. Partner: Faenza, Ravenna e Riccione. La realizzazione di corti è stata affidata alla redazione di Radio Icaro e Icaro tv, già esperta nella realizzazione di progetti sull’integrazione.
I cortometraggi e le storie
Enrico, di Cesena, Serge del Benin, Fatiha tunisina e Carlotta di Cesena, hanno voluto raccontare come sarebbe addormentarsi una sera e risvegliarsi, il giorno dopo, con la pelle scura. Souhila, algerina, di fede musulmana, ha voluto parlare di sé e della sua cultura spiegando che il velo che porta in testa ogni giorno, la fa sentire libera e protetta, e che è una sua scelta. Chiara, di Cesena, ha messo in scena una cena a casa sua, dove la piadina sta nel piatto insieme al cous cous. Questi sono solo alcuni dei temi dei cortometraggi che dal 24 aprile, ogni sabato e domenica, per 5 settimane, sono in onda su Rainews24 alle 10 e alle 19. A partire dal 20 maggio tutti i giovedì alle 21:40 su è TV e dal 23 maggio tutte le domeniche alle 20 su Icaro Rimini Tv.
I ragazzi stranieri che hanno partecipato al progetto, raccontano di esperienze simili, ma pur sempre diverse. Così fanno Hind, Mary e Souhila, dall’Africa.
I miei pregiudizi sull’Italia
Capelli ricci in parte raccolti, pelle mulatta, Hind ha 28 anni, vive e lavora a Cesena. Dice che tra gli autori italiani preferisce Roberto Saviano e Giorgio Faletti. “Ho lasciato il Marocco per motivi di studio, ma più per fuggire una mentalità troppo rigida, sono andata via alla ricerca della libertà, della mia libertà”.
Perché in Italia?
“I motivi sono tanti. Uno importante per me è stato che mio padre ha studiato a Bologna, ma io lui non l’ho mai conosciuto”.
Quale reazione alla tua scelta?
“Quella dei miei amici è stata la stessa che avevo io quando sentivo parlare di immigrazione in Italia: andare nel paese della mafia?”.
Come gli harraga, i clandestini che arrivano in Italia in modo irregolare?
“In Marocco, certe classi sociali pensano che in Italia vadano i disperati, come i contadini del Sud che hanno perso il lavoro per la siccità. A studiare si va soprattutto in Francia e in Quebec. Chi viene qui ha poi di solito l’appoggio di qualche conoscente. Io invece non conoscevo nessuno, ma in Italia – ero sicura – avrei trovato la mia libertà.
Come sei stata accolta?
“Molto bene, grazie al mio aspetto e ai miei comportamenti abbastanza occidentali. Ho avuto per lo più problemi con la burocrazia, per rinnovare ogni volta il permesso di soggiorno, in seguito per ottenere la carta di soggiorno. Ho fatto diversi lavori, dalla donna delle pulizie alla commessa, la cuoca, l’assistente a un dentista. Ora sono impiegata in una ditta nell’ufficio export, seguo la parte commerciale e il marketing nei paesi arabi e alcuni francofoni. Vivo con altre ragazze italiane di diverse regioni d’Italia, di cui una è di religione cattolica e l’altra ebraica. Cosa amo dell’Italia? Tutto, ormai è casa mia”.
Io cittadina del mondo
Ride, Marie Antoinette. Lei che indossa collane colorate e un cappello a cilindro con i fiori, si definisce cittadina del mondo.
“Io differisco – spiega – il mio comportamento differisce dal mio essere senegalese, il mio colore dall’essere italiana”.
A Ravenna dal 1993, aveva 7 anni quando è arrivata.
“Mia mamma mi diceva: andiamo in vacanza, resteremo in un altro paese per un po’. Eravamo io e lei sole, dal Senegal al Marocco, dal Marocco in Italia su una nave carica di persone. Ero arrabbiata. E un po’ stupefatta dalle nuvole”.
Come ricordi i primi tempi in Italia?
“È stato traumatico iniziare. L’Italia ancora non era abituata a vedere persone di colore. A scuola e nei gruppi sportivi mi escludevano. Ancora oggi mi arrabbio. Non mi dà fastidio essere chiamata di colore: io sono marrone. Piuttosto la pelle degli italiani è più varia, visto che cambia a seconda del sole o delle emozioni. Mi hanno pure detto «nera di merda torna al tuo paese», erano ragazzi, i grandi tengono di solito queste battute per sé. Le difficoltà continuano: sono diplomata alberghiera, questo settore è ancora in parte legato alla figura bianca dietro al bancone”.
Cosa vorresti in futuro?
“Non vorrei più vivere in Italia, ma ancora non so bene dove. Vorrei tornare in Senegal solo per visitarlo, non per viverci perché dovrei radicalmente cambiare il mio modo di essere. Per ora ho imparato a stare con chi vuole stare con me. A Ravenna sono per lo più italiani. I senegalesi che ho conosciuto hanno a volte la mentalità ristretta del Senegal: un connazionale della mia età, mi ha chiesto se ero sposata e ho risposto di no. Lui mi ha detto che a 23 anni, essendo donna dovrei” e sorride nel raccontarlo.
“Se Dio vorrà”
Vorrebbe che i suoi figli crescessero nel suo paese d’origine, l’Algeria. Souhila ha 18 anni. Da 5 vive in Italia, da 4 mesi a Ravenna, prima ancora stava a Perugia. Papà è arrivato in Italia tre anni prima che lei migrasse. La mamma l’ha raggiunto per un anno. Poi in aereo è arrivata lei, Souhila, con tre fratelli. L’anno dopo un’altra sorella, poi il fratello grande. Mentre parla, usa sempre un’intercalare: Inshallah, “se Dio vorrà”. Souhila è una donna velata. Frequenta la Casa delle culture di Ravenna, dove si fanno lezioni di arabo e Corano ai figli di immigrati “per non perdere l’origine e farci crescere”, spiega. È lì che con l’amico tunisino Mohamed ha saputo del progetto Pillole di identità.
Perché è difficile integrarsi?
“Sono arrivata in Italia alla fine della seconda media. In terza media ho messo il velo e a questo sono legate in particolare le mia difficoltà, soprattutto in relazione ai compagni di classe. Meno con i professori. Al primo anno del liceo linguistico, alle superiori, le difficoltà si sono accentuate: avevo il velo, non parlavo bene la lingua e mi sentivo male. A metà del secondo anno di liceo ho quindi rinunciato al velo per un po’. Ora l’ho rimesso perché è una cosa cui tengo tanto”.
Questo potrebbe limitarti anche sul lavoro?
“Ho fatto l’aiuto cuoco e vorrei infatti continuare con questa occupazione per il momento: appena però avviso che ho il velo, mi sento dire che mi contatteranno, ma nessuno si fa più sentire. Forse riuscirò meglio come giornalista, o piuttosto come interprete, per esempio dall’italiano all’arabo. Mi piacerebbe comunque tornare al mio paese e, Inshallah, ci tornerò”.
Lucia Renati