1946. Con la fine delle ostilità belliche e il riaffacciarsi della vita democratica fanno capolino i partiti e con essi i loro organi di stampa. Dopo anni di dittatura la gente ha voglia di riprendere il contatto con la discussione politica; ma il clima di disperazione e di rabbia che avvolge il dopoguerra fa esplodere antichi rancori e alimenta i contrasti tra le fazioni.
Tra i cattolici, organizzati nelle file della Democrazia cristiana, partito che riscuote il plauso incondizionato delle alte sfere vaticane, ci sono soprattutto i giovani provenienti dalle fila dell’Azione cattolica. Mons. Luigi Santa non solo non ha mai nascosto il proprio apprezzamento per le iniziative dei democratici cristiani, ma li ha più volte spronati all’azione. In questo momento coloro che si muovono dietro le insegne di questo partito, che si rifà al filone tradizionale del cattolicesimo sociale, cercano soprattutto di salvaguardare il proprio credo religioso, un valore che si ritiene in pericolo ad opera del «comunismo ateo e negatore di qualsiasi libertà». Dai padri salesiani, che non fanno mistero della loro convinta adesione ai postulati dello scudo crociato – simbolo della DC – ha la sua base operativa Alberto Marvelli, esponente di spicco di questo partito nel riminese; con lui troviamo anche diversi giovani cresciuti nell’associazionismo cattolico di marina.
Anche le donne, per la prima volta, sono chiamate alle urne.
Che la politica a Rimini abbia assunto i toni aspri e duri della contrapposizione frontale ne fa fede l’episodio capitato a don Adelmo Zanarini nel suo primo impatto con la città. Il salesiano, che come abbiamo riferito giunge a Rimini col treno il 14 ottobre 1945, alla stazione, appena sceso dalla vettura, chiede a un gruppetto di persone la strada per raggiungere la parrocchia di Maria Ausiliatrice. Come risposta riceve in pieno viso una sberla che gli fa volare il cappello e una risata sardonica da parte della combriccola. Lo schiaffone è il benvenuto di alcuni comunisti riminesi a quell’uomo che con la tonaca, il colletto bianco e il cappello da prete aveva la sfacciataggine di manifestare la propria fede apertamente. Un tempo davanti al sacerdote ci si toglieva il cappello, per rispetto e riconoscenza. Ora, il cappello, lo tolgono al prete.
La campagna elettorale per il referendum istituzionale e per l’Assemblea costituente del 2 giugno si svolge pacificamente, ma con molta tensione. Anche le donne, per la prima volta, sono chiamate alle urne. I salesiani spingono i fedeli al voto: un diritto e un dovere civico. Il 23 dicembre 1945 don Marino Travaglini legge ai confratelli una circolare dell’Ispettoria contenente osservazioni, avvisi e modalità sull’obbligo del voto da illustrare ai parrocchiani. Il 10 marzo 1946 viene letta in chiesa la circolare di S.E. mons. Lega, arcivescovo metropolita di Ravenna, che sprona i fedeli a recarsi al seggio elettorale. Il 30 aprile, alle ore 21, nel teatro dei salesiani don Spartaco Mannucci, direttore della casa di San Marino, parla della festa del lavoro, facendo capire al pubblico che «il primo maggio non è materia esclusiva delle sinistre».
È Alberto Marvelli che introduce le conferenze del gesuita padre Riccardo Lombardi.
Nella primavera del 1946, in pieno clima elettorale, Alberto Marvelli a nome dei Laureati cattolici convoca a Rimini il gesuita padre Riccardo Lombardi. Il predicatore, che sarà chiamato “il microfono di Dio” per la capacità «di rendere facile, chiaro e prontamente comprensibile ciò che è complicato, tormentato, chiuso, difficilissimo», il 23 aprile inizia un ciclo di “conferenze” nella chiesa di S. Agostino. Naturalmente dentro i “discorsi sacri” del gesuita c’è anche il suo pensiero politico e la cosa infastidisce parecchio. I comunisti, che conoscono bene padre Lombardi, masticano amaro. Per contrastare l’iniziativa dei democratici cristiani organizzano in piazza Cavour, a cento metri dalla pro-cattedrale, un ballo pubblico nello stesso orario del conferenziere. È, questa, una lampante mossa di disturbo: un tentativo di attirare in piazza quanta più gente possibile per distoglierla dalla chiesa. Il risultato però è deludente. La popolazione si riversa in massa a S. Agostino, mentre la pista per le danze resta pressoché vuota. A questo punto, come seconda mossa, i comunisti tentano la carta del sabotaggio; cercano di togliere la corrente elettrica agli altoparlanti del predicatore, che a tutto volume diffondono fuori dalla chiesa la sua voce. Lo stratagemma dei “rossi” viene prontamente rintuzzato dai “bianchi”, che, sapute le intenzioni degli avversari, corrono ai ripari avvertendo le forze dell’ordine.
Con Alberto Marvelli, che tutte le sere, per una settimana, ha il compito di presentare padre Riccardo Lombardi ai fedeli e di introdurre l’argomento della conferenza, c’è anche don Adelmo Zanarini. I due, dopo l’avventura capitata in stazione al salesiano, viaggiano in coppia. Il 12 maggio Alberto ringrazierà il gesuita con una lettera nella quale rassicura che «il buon seme gettato dalle sue parole» non sarebbe andato «disperso».
Con il referendum del 2 giugno 1946 l’Italia liquida la monarchia e diventa una Repubblica. Umberto II, il ”re di maggio” – sul trono da un mese dopo l’abdicazione del vecchio sovrano Vittorio Emanuele III – è costretto a prendere la via dell’esilio. Anche Rimini dà il suo contributo al cambio istituzionale: per la Repubblica votano 30.473 cittadini, per la Monarchia solo 6.431.
La marina è ancora in mano alle forze di occupazione ed è grave la situazione dei senzatetto.
Archiviato il referendum del 2 giugno 1946 si comincia a pensare alle elezioni amministrative del 6 ottobre. Intanto, però, l’estate incalza e la presenza alleata è di ostacolo alla ripresa. Nonostante il continuo e progressivo esodo dei militari, nel 1946 la marina di Rimini è ancora in mano alle forze di occupazione. Oltre alle abitazioni rimaste illese, gli alleati si sono impossessati di diversi piano-terra di ville semi diroccate. In questi casi non solo impediscono ai proprietari di entrare, ma anche di eseguire quegli urgenti lavori necessari per salvare il patrimonio edilizio. Al disagio delle requisizioni militari si aggiunge quello delle occupazioni abusive ad opera dei civili. «In molti edifici meno danneggiati», scrive “Città nostra” il 27 aprile 1946, sono piombati «senza nessuna intenzione di mollare» centinaia di sfollati, «sinistrati della zona cittadina, dei sobborghi o addirittura del circondario». Nei confronti di questi abusivi non è possibile emanare decreti di sfratto. «È inumano», sostiene il periodico. «Dove andrebbero?». Intanto, però, i proprietari non possono entrare nelle loro case. La situazione degli alloggi è uno degli strascichi più penosi e drammatici lasciati dalla guerra: comincerà ad appianarsi solo verso la fine dell’estate del 1947 con la partenza delle truppe alleate. Bisognerà, però, attendere ancora qualche anno prima di considerare risolto definitivamente il problema. Gli ultimi sfollati, infatti, lasceranno le abitazioni occupate nel 1949.