Le Teredini, uno degli organismi xilofagi (voraci mangiatori di legno) che vivono e proliferano nelle acque salmastre, come abbiamo visto in un primo articolo pubblicato su Il Ponte (n.6 del 20 gennaio) , rosicchiavano le palificate a sostegno dei moli dell’Adriatico e del porto di Rimini. Le teredo navalis, chiamate da Fabio Colonna «vermi marini» (Colonna fu tra i primi iscritti all’Accademia dei Lincei aperta da Federico Cesi nel 1612), non furono trasportati in Europa dai vascelli che attraversarono l’Oceano alla scoperta del nuovo mondo come scrisse Ruggero Boscovich, in Europa c’erano già da molto tempo. Nell’epoca attuale, la massima autorità riconosciuta ufficialmente, il Museo di Storia Naturale di Venezia così riporta sul suo sito: «Le larve così prodotte si fissano al legno e iniziano la perforazione producendo un piccolo foro. La perforazione, dopo una breve fase longitudinale, si sviluppa lungo sezioni trasversali. Dato che il foro d’entrata rimane delle stesse dimensioni, un legno colonizzato dalle teredini può apparire esternamente quasi integro, o con minime perforazioni, risultando al contrario internamente pesantemente degradato».
Nell’antica Roma
Nel primo secolo d.C. la Teredine compare nella Historiae Mundi di Plinio il Vecchio (libri XXXVII, Volume 1), quando tratta della specie dei tarli da la prima definizione conosciuta di Teredine: «LXXX.41. Quattro sono le sorti degli animali, che guastano gli alberi: il tarlo ovvero teredine; ha grandissimo capo in proporzione del corpo, e rode coi denti. Questo solo si sente in mare, e si ritiene comunemente che questo sia proprio la Teredine».
Riportate anche da Vitruvio libro V c.12. All’inizio del 1700 fu Apostolo Zeno nel Giornale dei Letterati d’Italia a ricordare che «Plinio, Teofrasto, il Ruelio, ed altri celebri scrittori hanno fatto menzione di questo dannosissimo tarlo che chiamano Teredine».
Tra 1600 e 1700
Francesco Redi lo scienziato naturalista aretino, che sovvertì la teoria Aristotelica dell’origine della vita, nella sua lettera al conte Magalatti riferiva una descrizione dettagliata e puntuale delle teredini fatta al porto di Livorno. Carlo Linneo biologo svedese, considerato il padre della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi, scrivendo delle teredini che furono propagate, diffuse e moltiplicate nei mari europei per mezzo delle navi provenienti dalle Indie, aveva commesso un errore non da poco. Il ravennate Francesco Ginanni nella Istoria civile e naturale delle pinete ravennati, citando Linneo ne diede la seguente definizione: «Teredine del legno. Teredo intra lignum texta flexuosa, del Linneo. Abita né pali che sostengono le foci dé condotti dell’acque che mettono in mare»
Albrecht von Haller corrispondente di Giovanni Bianchi, nel suo Biblioteca Anatomica cita il trattato De teredine marina scritto da Godfredo Sellius. Lo stesso G. G. Winckelmann nel Volume 9, delle sue Opere scriveva «So quanto fosse l’abilità di quest’uomo [Sellius] conosco il suo libro De teredine marina, scritto in leggiadrissimo latino».
I rimedi di Boscovich e Bianchi
La pece come “cera” per ungere le navi è descritta da Plinio il Vecchio come un rimedio per impermeabilizzare il fasciame delle navi ampiamente usata dai romani. Ma era anche un buon rimedio, usato per molti secoli, per impedire alle teredini di annidarsi nei legni delle imbarcazioni immersi in acque salmastre. Nei fatti del porto riminese della seconda metà del settecento il problema emerge e vengono proposte più soluzioni per evitare la distruzione in due o tre anni dei pali infissi a formare i moli. Giovanni Bianchi nel Parere sopra il Porto di Rimino scrisse del suo doppio rimadio nel trattare i pali di legno «…si può fare il rimedio di sopra mentovato, cioè d’abbronzarla per un dito intorno intorno, e poscia impeciarla, come si fanno le barche; oppure che se le potrebbe dare una vernice, nella quale fosse cotto il verderame, o l’arsenico, che sono cose velenose, che uccidono tutte le maniere d’animali, che le addentano, non che le brume di mare, che sono di una sostanza delicatissima, e tenerissima», preferendolo al rimedio di Ruggero Boscovich «Il P. Boscovich propone un liquore cavato dal carbon fossile; ma questo quì non si trova, ed anche finora è come un segreto, onde per ora basterà attenersi alla pece navale, che difende le barche, o alla vernice, che ho detta». Bianchi scriveva forse di un «liquore» prodotto dalla raffinazione del petrolio, antenato del gasolio e della benzina visto che «finora è come un segreto»?
Loreto Giovannone