27 gennaio, giornata della memoria. Nella sala del Giudizio ai Musei della città un cumulo di giovanissimi stanno silenziosi, attenti a quello che l’esperto ha da dire. Ma non è il solito incontro, si respira nell’aria. L’esperto è Gad Lerner, l’atmosfera che si è costruita ha il senso e la forza dell’esperienza di vita. Saranno poi loro, i giovanissimi, a fare le domande. Hanno fatto i compiti a casa, letto il libro e hanno le loro domande, scritte fitte fitte su un foglio di carta, da fare. Una cosa che – confesserà in apertura Lerner – lo stuzzica e lo spaventa.
Nell’aria “scintille”, si potrebbe dire, com’è il titolo dell’ultimo libro del noto giornalista, come sono quei frammenti che, secondo un’immagine che arriva da lontano – e che l’autore associa alla sua narrazione – scaturirebbero dall’incontro di anime che si staccano dai corpi e che sentiamo circolare intorno a noi, talvolta dentro di noi, che guidano, ispirano e non lesinano di esprimere inquietudine e angoscia.
Che ci sia stato Gad Lerner, che sia stato presentato Scintille – storie di anime vagabonde – e proprio il 27 gennaio – non è un caso. L’ultima fatica letteraria del giornalista “infedele” infatti è un tuffo nella storia e allo stesso tempo una narrazione di eventi che inchioda ad una riflessione sulla memoria e l’identità. Pone interrogativi importanti e di non immediata soluzione: “Sì è vero – interviene Lerner – la memoria è importante. Però va onorata con la dovuta cautela. Forse non tutto va o deve essere recuperato, forse non tutto è così importante per la nostra vita. Anzi, forse c’è bisogno di una certa dose di oblio per riuscire a vivere o sopravvivere”.
La questione è più complessa ed emerge dalle pieghe delle parole che vengono dette. Guai a chi rispondesse di no, che la memoria non è importante. Ma è anche vero che i sopravvissuti, per continuare a vivere, tendono a dimenticare.
“Ci sono fior fior di studiosi che hanno fatto l’elogio dell’oblio, per esempio. Basti pensare alle deportazioni. Chi è tornato, anche solo nel rapporto con i figli, si sarà confrontato con quel che fosse giusto dire loro o tacere loro. La questione è molto complessa”.
La storia e la memoria
Dentro Scintille si ricostruisce la genealogia dei Lerner, una famiglia molto complessa, composta da ebrei con origini diverse per cultura, storia e territorio di appartenenza. Ma sarebbe riduttivo considerare l’opera solo in senso autobiografico. Al centro il viaggio, la ricerca delle radici, che è viaggio geografico, che è viaggio culturale ma che è anche viaggio spirituale.
Chiede allora la “preparata” platea come si è declinata la dicotomia tra memoria e oblio nella sua vicenda personale e nella stesura del libro.
“Il mio è il caso in cui il lavoro sulla memoria comporta l’obbligo di ricordare faccende indiscrete, intime, private e sgradevoli. In me c’è stata l’obiezione a quell’elogio dell’oblio. Perché penso che quando fai finta di niente, quando non leggi un dolore che ha distrutto la tua famiglia, anche se devi continuare a vivere, sbagli. Non puoi non farci i conti.
Il problema è che l’oblio rischia di tradursi da buona intenzione per ricominciare al suo contrario cioè ad un malessere compresso, nascosto. Dissimulazione del trauma, incapacità di elaborare il lutto, di vivere e di esprimere e comunicare il dolore che ne è scaturito. Questo ha degli effetti sulle generazioni successive: produce fortissime incomprensioni. Per esempio non si capisce perché una persona è sgradevole o litigiosa. Ma parliamo anche di malesseri più profondi. L’oblio poi, non ti mette nella posizione di comprendere la storia della quale sei stato un piccolissimo ingranaggio, un minimo attore. E questa mancata comunicazione produce conflitti, divorzi (nella storia dei miei genitori, per esempio), nevrosi che si possono riversare sulle generazioni successive”.
Lei ha fatto un viaggio alla ricerca delle sue radici. Ha raccontato cose, descritto: non personaggi, ma persone. I suoi genitori, per esempio, che cosa hanno detto? Non l’ha colto un certo “pudore” nello scrivere di suo padre e di sua madre?
“Questo libro mi è costato tanti anni della mia vita, ma anche tanta insonnia, nevrosi, arrovellamenti. Questa faccenda, della giustezza di pubblicare il libro prima o dopo la morte dei miei genitori mi ha addirittura portato a confrontarmi con un mio amico psicanalista (sorride enigmatico il giornalista, ndr). Non è una faccenda da poco. Poi è cresciuta in me un’urgenza.
L’urgenza di pubblicarlo, di modo che mio padre e mia madre potessero leggerlo. Sono anziani ma sono in grado, a modo loro (uno l’opposto dell’altro) di leggerlo e riguardare questa storia che ha provocato non solo il loro conflitto ma incomprensioni con i figli che hanno generato uno stato di scarsissima confidenza. La memoria in certi momenti ha voluto dire, per me, sapere che provochi del dolore nel presentare la tua versione dei fatti. Non mi interessava l’albero genealogico. Avevo poche tracce e non avevo l’ossessione di abbinare nomi ai volti. La mia identità la declino al presente e al futuro ma ho bisogno di dare un senso a quello che nella mia famiglia non ha funzionato”.
La domanda successiva è d’obbligo. Nel libro si coglie il rapporto conflittuale che ha avuto con suo padre. Nello scrivere il libro, nello scoprire quello che suo padre ha dovuto subire nella vita, è riuscito a modificare il modo di vederlo. È riuscito a perdonarlo o a superare le delusioni che lei dice di aver patito nella sua vita?
“Si, nonostante lui faccia di tutto perché ciò non accada. Mio padre è nato nel 1926 in un teatro di guerra, quando lui era in età di farla, quella guerra. Ma ha vissuto sempre in pace. Non ha macerie di tipo materiale dietro di sé ma è una persona complessa. La comprensione è la premessa della riconciliazione ed è anche uno sforzo di avvicinamento: così io l’ho concepito. Certo è che non sarei sincero se dicessi che tutto il libro è una mozione d’affetto, laddove è evidente la voglia di far male, anche. Ma io ho fatto di tutto per mettermi in cattiva luce. Tutti i miei amici che hanno letto il libro, per esempio, mi hanno detto di aver fatto il tifo per mio padre. Ma ci ho messo anche del mio perché apparisse così.
Ma non credo di essere l’unico ad avere avuto dei conflitti con la famiglia. Non è semplice, non illudetevi: la famiglia non è il luogo istintivo degli affetti e molto altro”.
Fuori dalle quattro mura. Nel suo viaggio si sente, forte, la difficoltà d’espressione delle persone che incontra. Sui fatti che riguardano la Shoah, per esempio, come giustifica o spiega alcuni silenzi?
“Ci sono diversi tipi di silenzio che ho incontrato e che racconto. Io ho viaggiato molto, oltre che nell’Ucraina di oggi, in Polonia, in Lituania. Cioè in dei luoghi in cui lo sterminio ha raggiunto percentuali quasi assolute, circa il 90% degli ebrei che vivevano lì. Quindi c’è un silenzio degli abitanti di quei luoghi, che è un silenzio inconsapevole. Perché si sono taciute delle cose? Per esempio il fatto che qualcuno avesse aiutato le Ss a fare tutti quei morti. È un silenzio di chi dopo tanti anni non ha avuto gli strumenti per poter ragionare sulla sua storia. Per cui capita, nei luoghi degli eccidi che nelle targhe commemorative – quando ci sono – scritte in lingue diverse, si leggano anche cose diverse.
Per esempio, in lingua ebraica si legge: «Qui i nazisti con la collaborazione dei fascisti locali hanno ucciso 1500 persone». Nella versione ucraina si legge «Qui i nazisti hanno ucciso 1500 persone». Questo è un silenzio. Poi c’è, invece, il silenzio «strano», non solo dei sopravvissuti ma anche di quelli che ci hanno a che fare. Quando ero bambino, per esempio, e con mia madre andavamo in un negozio di giocattoli a comprare delle matite colorate, mi è capitato che lei non comprasse articoli con scritto «made in Germany». Non si compravano cose tedesche, il concetto mi ha attraversato ma non sapevo perché. In casa mia, nella mia famiglia nessuno ha mai raccontato delle storie. Quest’estate, prima di mandare il libro alle stampe, ho chiesto a mia madre di raccontarmi. Non mi davo pace che lei, una donna colta, che ha letto e legge di Shoah non riuscisse a parlare con l’uomo che ha avuto nel letto per 20 anni, con il quale ha fatto tre figli, etc. Questo è il silenzio «strano»”.
Usciamo dalle pagine del libro. In questo periodo in cui si parla non bene degli immigrati: chi non comprende queste cose o non le condivide come si deve comportare?
“Mi viene meglio dire come non dobbiamo comportarci. Non dobbiamo metterci nella posizione di farne una questione tra buoni e cattivi. Il dire noi siamo migliori di loro. Perché questo mettersi in una differenza sul piano morale ci impedisce di comprendere la fatica che implica questa relazione. Ogni relazione è faticosa. È faticoso convivere con una famiglia del Pakistan con abitudini diverse. È faticoso indipendentemente che tu sia buono o cattivo, di destra o di sinistra ma implica uno sforzo di relazione. Parlarci stabilire un modus vivendi”.
Pare una buona premessa.
Angela De Rubeis