Piergiorgio Grassi ha condiviso con don Luigi Tiberti (nella foto) cinquant’anni di impegno e passione ed è stato testimone diretto della nascita della Gioc in Italia e a Rimini. Lo abbiamo intervistato.
È nota l’amicizia che legava lei e don Luigi…
“Sì e fatico a rendermi conto della sua scomparsa. L’avevo visto una settimana fa alla casa del Clero, prima di partire per un impegno a Roma. L’infermiera che lo accudiva mi aveva avvertito:“Oggi per don Luigi non è giornata” e mi aveva detto di attendere prima di entrare nella sua stanza, gli avrebbe chiesto se poteva ricevermi. La risposta era stata positiva. L’ho trovato ansimante, affaticato, smagrito. Stava pregando. Sono state poche le parole scambiate. Le sue arrivavano a fatica, leggere come un soffio.“Come stai? Come sta la tua famiglia? E le tue ricerche?” Ma il colloquio procedeva a fatica, la sua sofferenza era grande. L’ho salutato ripetendo che sarei tornato a trovarlo appena superato questo suo momento di stanchezza. In passato ce n’erano erano tanti… Il suo grande cuore ha smesso di battere prima che potessi incontrarlo ancora una volta. Quando ho ricevuto da don Antonio Moro la notizia della sua scomparsa mi sono passati davanti agli occhi le immagini vivide di un’amicizia e di una collaborazione durate più di cinquant’anni”.
Quando e dove aveva conosciuto don Luigi?
“Il primo incontro avvenne nella parrocchia di San Giovanni Battista dove don Luigi era venuto come cappellano, nei primi anni Cinquanta, appena ordinato sacerdote, ed era scoppiato subito un feeling molto intenso tra lui e il numeroso gruppo di giovani che frequentavano quell’oratorio. L’amicizia è poi continuata e si è approfondita nella collaborazione, alla fine del decennio quando fu nominato dal vescovo Biancheri assistente diocesano della Gioventù Italiana dell’Azione Cattolica (Giac). Nel 1959 fui nominato presidente di quell’associazione (succedetti a Ferdinando Rossi). C’era allora nel Centro diocesano della Giac un gruppo di giovani effervescente di idee e di iniziative: Aldo Amati, Luciano Chicchi, Stefano Zamagni, Nicola Sanese, Fabio Zavatta, Michele La Rosa e tanti altri, che hanno trovato in questo contesto ragioni forti di impegno nella Chiesa locale e nella società civile. E poi c’erano preti come don Oreste Benzi e don Giancarlo Ugolini che andavano maturando itinerari pastorali, itinerari che si sarebbero rivelati più tardi nella loro forma compiuta.
Don Luigi concentrò ben presto la sua attenzione pastorale sui giovani operai e sugli studenti delle scuole medie che avviavano al lavoro (non a caso insegnò religione per tanti anni all’Istituto professionale Leon Battista Alberti). Lo tormentava la disaffezione nei confronti della Chiesa e del cristianesimo. Ripeteva che solo chi avesse incontrato il Dio di Gesù Cristo era in condizione di dare un senso pieno alla sua esistenza. Di qui la ricerca nell’individuare le strade di una rinnovata presenza nell’ambiente operaio, ricerca che lo portò ad incrociare l’esperienza della Gioventù Operaia cristiana, fondata in Belgio da mons. Cardijn il quale sosteneva che l’evangelizzazione dei giovani operai doveva passare attraverso l’impegno dei giovani operai stessi; in un gruppo che agisse come lievito nella massa. Solidali nelle lotte di emancipazione e insieme testimoni di un’Alterità infinita.
Decidemmo insieme di recarci a Bruxelles per conoscere da vicino il movimento. Furono giornate intense di incontri, letture, di individuazione di testi da tradurre dal francese. Ci recammo poi in Germania e in altri paesi europei in occasione di meeting internazionali della Gioc. Ci fu poi l’inizio lento, ma costante dell’esperienza a Rimini, all’interno del Movimento lavoratori della Giac”.
È una storia questa che si avviò a Rimini negli anni Sessanta.
“E che deve moltissimo alla tenacia e alla generosità di don Luigi. Fu lui che raccolse un primo nucleo di giovani operai (Nando Tosi-Brandi, Luciano Bagli, Elio Nanni, Serafino Piva, Gigi Mazza, Luciano Pasini…) e che si adoprò perché uno di loro (il primo fu Elio Nanni) per alcuni anni, abbandonato il lavoro, – si mettesse a disposizione del Movimento. Lo si chiamava “permanente” e suo compito era quello di coordinare tutte le attività: dalle inchieste sui grandi temi della condizione giovanile nel lavoro (l’apprendistato, la salute, le previdenze per chi intendeva formarsi una famiglia, la casa, il tempo libero…) alla fondazione di gruppi in fabbrica e nelle parrocchie. Si tentava una nuova metodologia di incontri, quella revisione di vita che a partire dai fatti della condizione operaia risaliva alla parola di Dio e, illuminata da questa, portava all’azione, coinvolgendo in questa dinamica i colleghi di lavoro.
Don Luigi studiava, approfondiva, animava: si muoveva sul territorio diocesano con una Fiat seicento molto malandata. Parte del suo stipendio di professore di religione era destinato a coprire le spese del “permanente” e delle iniziative messe in cantiere. Ogni tanto qualche benefattore copriva i “buchi” di bilancio.
Mi sono spesso domandato da dove nascesse la sua forza di attrazione nei confronti dei giovani operai, lui che non era un oratore suadente, che mostrava anzi una certa timidezza nel manifestarsi. Ora sono persuaso che la preghiera e la meditazione approfondita del Vangelo affinassero la sua capacità di accoglienza, del suo farsi amico e fratello di chiunque si rivolgesse a lui; affinassero la sua attitudine all’ascolto che non misurava il tempo con l’orologio e che si faceva proposta e testimonianza di un cristianesimo aperto alle vicende personali e collettive. Chi appartiene alla mia generazione ricorda le file di giovani che, soprattutto al sabato, attendevano di incontrare don Luigi e don Oreste in due stanzette disadorne ricavate sul lato del vecchio seminario che dà sulle arcate del Tempio malatestiano”.
Questa esperienza ebbe una certa risonanza anche al di fuori dei confini della diocesi…
“È vero. Si pensò di trapiantarla a livello nazionale nel Movimento lavoratori della Gioventù Cattolica italiana. Venne infatti a Rimini mons. Filippo Franceschi (sarà poi vescovo amatissimo della diocesi di Padova), allora assistente nazionale della Giac, per chiedere che alcuni del gruppo riminese, a cominciare da don Luigi, ricostituissero l’Ufficio nazionale. Don Luigi declinò l’invito, non voleva abbandonare il movimento che in quegli anni era in piena crescita e spinse prima me e in seguito Elio Nanni a tentare questa operazione a Roma. Accompagnava il nostro lavoro con lettere, telefonate, tempestandoci di richieste e di suggerimenti, intrecciando amicizie con sacerdoti e laici di altre diocesi in occasione degli incontri nazionali. Molto intensi erano i rapporti con la diocesi di Torino dove c’era un consistente gruppo di giovani della Gioc e la presenza di un prete al lavoro, don Carlo Carlevaris, particolarmente autorevole”.
Erano questi gli anni del Concilio Vaticano II. Come seguì i lavori del Concilio don Luigi?
“Con attenzione e trepidazione. Era informato del dibattito che si svolgeva nella grande aula di San Pietro dal nostro vescovo mons. Biancheri, di cui don Luigi era segretario. Trovava una corrispondenza tra i documenti che venivano via via elaborati e l’esperienza pastorale che andava conducendo: li studiava e li presentava sistematicamente in vari incontri. Poneva l’enfasi sul ruolo che il Concilio affidava ai laici nella missione della Chiesa, nel progetto che si andava delineando di un rapporto più stretto e operoso con il mondo moderno. Anche in ragione dell’apprendimento della lezione del Concilio, don Luigi attraversò il Sessantotto e gli anni turbolenti che seguirono, senza lasciarsi incantare dalle ideologie dominanti. Pensava che fosse necessaria una rigorosa fedeltà a Dio e alla terra; che il mondo del lavoro avesse bisogno, per superare le tensioni e le alienazioni, di un orizzonte di trascendenza che tenesse alta la speranza di un futuro diverso. Ricordava spesso le parole di Paolo agli Efesini: “Non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura”. Convinzioni che lo hanno animato sino alla sua ultima giornata terrena”. (cz)