Senza il diritto di essere umani

    In Italia non arrivano più i barconi carichi di persone. Sbagliato, in Italia non vediamo più arrivare i barconi. Le leggi che hanno introdotto la formula del “respingimento” in mare, infatti, ha cancellato dai nostri occhi l’arrivo delle imbarcazioni straripanti. Così l’ondata di immigrati sembra essersi fermata. Ma cosa ha prodotto il cambiamento nella sorte di queste persone? Dove andranno a finire centinaia di uomini, donne e bambini rispediti come pacchi postali in mare aperto?
    Eppure a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto di asilo politico. Un diritto sancito dalla Convenzione di Ginevra (1951), quindi riconosciuto a livello internazionale e che permette, a chi scappa dal suo Paese per ragioni legate a guerre e persecuzioni, di cercare protezione in un altro Stato.
    Jay Jay viene dalla Nigeria. La sua fortuna è stata quella di arrivare in Italia prima dell’introduzione del Decreto Sicurezza e di riuscire così ad avvalersi del diritto di asilo politico.
    Ma Jay Jay la sua esperienza in un carcere libico l’ha fatta – ci è rimasto cinque anni – e ci tiene a raccontarla.
    La sua colpa? Aver collaborato con i sacerdoti, in Libia, e aver fatto circolare alcune bibbie nel Paese. Quando è stato arrestato e recluso nel carcere di Jadeda, in Libia, aveva 26 anni.

    Il carcere
    Il carcere di Jadeda si trova alla periferia di Tripoli. Ci vivono circa 4 mila prigionieri. È composto da blocchi dove ci sono delle stanze comuni che contengono circa 500 persone. Su queste si affacciano grandi stanze “da letto”, in ognuna delle quali dormono 100 persone. Jay Jay è sopravvissuto a tutto questo, ma non ne è uscito illeso.
    “Adesso ho dei problemi agli occhi perché, per un anno, ho vissuto in una cella di un metro per un metro. Era sempre buio anche di giorno. Da una piccola fessura ricevevo il pasto quotidiano e per bere c’era un tubo di gomma vicino al wc. I miei bisogni li facevo lì, nella cella”.
    Poi, il suo percorso in carcere è proseguito nei blocchi, insieme agli altri prigionieri.
    “In una stanza da letto, di 45 metri quadri, ci dormono circa 100 persone e c’è solo un bagno. Per fare la doccia i prigionieri si devono mettere d’accordo tra loro, ma i prigionieri libici, in particolare, che in carcere sono la maggioranza, sono poco tolleranti. Insomma, è molto difficile. Dopo 5 minuti, poi, le guardie carcerarie ti fanno uscire dalla doccia”.
    Un tubo di gomma, che viene da terra, nel quale scorre solo acqua fredda. Questa è la doccia nelle carceri della Libia.
    “Oppure -racconta Jay Jay – puoi prendere un contenitore, riempirlo di acqua e lavarti nello spazio comune”.

    La giornata
    La giornata, a Jadeda, comincia alle 7.00. Non è necessaria nessuna sveglia perché le condizioni nelle quali si vive, spesso, non permettono neanche di prendere sonno.
    Nelle stanze non ci sono i letti, si dorme per terra. Qualcuno dorme anche in piedi o nel bagno perché nella stanza non c’è posto a sufficienza. C’è chi non ha nemmeno la coperta perché non bastano per tutti. Per colazione c’è latte e caffè e un pezzo di pane, che deve bastare per tutto il giorno. Dopo la colazione, a turno, i carcerati puliscono le stanze mentre gli altri rimangono nella zona comune. Non si fa nulla per tutto il giorno. L’ambiente è sempre sporco e ogni stanza ha piccole finestre con inferriate, qualcuno fuma. Per pranzo si mangia un piatto di pasta oppure di riso. Non ci sono né sedie, né tavoli, i pasti vengono consumati seduti per terra. “Dopo pranzo si rimane ancora nella sala comune. Ogni persona ha un contenitore di plastica che porta con sè quando fa la fila per prendere il cibo. La sera si mangia una zuppa di fagioli. La porzione non è sufficiente per arrivare al giorno dopo. Alle 19 si va a dormire”.

    Il conteggio dei prigionieri
    La mattina e la sera si fa il conteggio dei prigionieri. “Quando le guardie contano i prigionieri li picchiano con tubi di plastica e tubi che vengono utilizzati per la corrente elettrica. Le guardie carcerarie colpiscono anche con calci e pugni. Quando hanno voglia, senza motivo, anche mentre sono in fila per prendere da mangiare. Si divertono, hanno piacere a picchiare specialmente lo straniero”.
    In carcere la convivenza è difficile, si litiga per qualsiasi cosa, per andare in bagno come per fare la doccia.
    “Ci sono troppe persone. Le guardie sanno chi ha litigato però a loro non importa così fanno uscire uno a uno i prigionieri dalla stanza e puniscono tutti. Sono sempre 10-20 guardie insieme che picchiano. Se qualcuno si fa male viene anche portato in Ospedale, ma a volte non torna indietro”.

    I motivi della reclusione
    “A Tripoli ci sono 20 carceri. È difficile viverci, ma devi sopravvivere per forza. Il carcere di Jadeda è il più duro di tutta Tripoli. Quando nelle altre prigioni ci sono problemi, i detenuti vengono portati in questo centro. Scappare dal carcere è possibile, ma molto difficile e, se le guardie ti prendono, ti uccidono immediatamente. Pagando circa 50 mila euro alle guardie è possibile uscire – racconta – ma essendoci molte prigioni a Tripoli, il rischio di essere preso ancora è alto. Dentro il carcere non si può avere il telefono. Se ti trovano con il cellulare i problemi aumentano. C’è la radio. Se uno paga può avere anche la televisione in camera.
    I motivi della reclusione sono essere diversi. Possono fermarti e portarti in prigione semplicemente perché cammini per strada; ti prendono e ti mettono dentro, senza motivo; se vedono insieme un uomo e una donna, oppure se uccidi qualcuno. Puoi essere rinchiuso per falsa testimonianza, perché non vogliono stranieri né cristiani. Ho conosciuto persone che erano in carcere perché avevano avuto problemi con lo Stato, militari accusati di complotto, mafia etc”
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    A fianco del carcere c’è una struttura nuova, quella che viene mostrata agli ispettori dell’Unione Europea quando si recano nel luogo per fare i controlli.
    “In quella prigione ci sono anche i letti. Io l’ho vista perché dal carcere sono stato portato in Tribunale, un viaggio dentro un camion insieme ad altri. In questa prigione ci sono 1000 persone e io l’ho vista anche dentro perché sono andato a trovare degli amici”.

    Il pensiero della fuga
    “Un giorno ho pensato di sfondare il muro, ma bisogna essere tutti d’accordo e poi è pericoloso provare a fuggire perché se ti prendono ti uccidono immediatamente. Non ho mai pensato di suicidarmi, ma ci sono molte persone che lo hanno fatto, alcune erano malate”.
    Jay Jay è rimasto nel carcere per 5 anni, ma ha conosciuto persone imprigionate da 35. “I primi giorni, in particolare, è difficile vivere in quelle condizioni, ma poi ti abitui. Quando conosci gli altri e scopri che sono lì da più tempo di te, ti consoli e vai avanti”.
    I prigionieri erano soprattutto libici ed eritrei, gli europei non erano tanti.
    “Dalle piccole finestre della stanza da letto, a volte, ho visto i prigionieri mentre venivano uccisi. Quando la Corte, in Tribunale, decide che qualcuno deve morire le persone vengono prese e portate in giardino. Viene coperto il capo e poi vengono messi tutti in fila uno a fianco all’altro e poi fucilati. In cinque anni ho visto tante esecuzioni.
    I prigionieri libici in carcere hanno dei coltelli. Li comprano dentro la prigione, dalla polizia, a un costo superiore rispetto all’esterno, così i poliziotti ci guadagnano. Con queste armi sono stati uccisi molti prigionieri. I libici fanno gruppo tra di loro e accoltellano le altre persone. Se qualcuno muore però la pena diventa maggiore”
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    Jay Jay, con le leggi vigenti, non sarebbe mai arrivato in Italia, ma sarebbe ritornato, seppur per altri motivi in un carcere libico e forse ci sarebbe pure morto. Tutte quelle persone che non vediamo più scendere dai barconi sono sparite solo ai nostri occhi, non sono tornate a casa ma, con ogni probabilità, vivono quello che Jay Jay può oggi, fortunatamente, raccontare.

    Letizia Rossi