In Italia ogni anno 2.500 famiglie perdono il loro bambino nell’ultimo trimestre di gravidanza o nei primi giorni di vita. Un dramma a molti ignoto ma indelebile nella storia delle donne che lo hanno vissuto; un problema di sanità pubblica che nei paesi industrializzati riguarda una nascita su 300 ma nel mondo povero raggiunge percentuali molto più elevate. Una morte inaspettata, definita tecnicamente perinatale perché sopraggiunge tra la 28esima settimana di gestazione e i 7 giorni dopo la nascita. Può avvenire in utero durante la gravidanza per anomalie del feto, complicazioni derivanti dal cordone ombelicale, dalla placenta o dalla condizione di salute della madre. Ma anche durante il travaglio per asfissia e dopo il parto per trauma o nascita pretermine, oggi al primo posto tra le cause di morte perinatale.
Nascere in anticipo lottando per la vita
Nonostante gli enormi progressi della medicina prenatale e neonatale degli ultimi 10 anni, la legge italiana classifica ancora come aborti spontanei i decessi fetali che si verificano prima della 26esima settimana. In realtà oggi, i nati a 23 settimane hanno ben il 10-15% di possibilità di sopravvivenza, i prematuri di 25-26 settimane il 50% e dalla 27esima settimana in poi le chances di vita autonoma aumentano progressivamente. Sono questi i bambini che conquistano la propria esistenza fin dal primo respiro, fin dall’istante in cui vengono alla luce, lottando in un corpicino di nemmeno 1000 grammi che per rimanere in vita necessita di assistenza ventilatoria, farmacologica e di sostegno del circolo sanguigno. Secondo le linee guida indicate dal Ministero della Salute in accordo con la società italiana di neonatologia, la rianimazione del nato gravemente prematuro e l’attivazione delle cure indispensabili alla sua sopravvivenza devono fondarsi sia sull’impeto vitale del bambino sia sulla volontà espressa dai genitori. Il Professore Nicola Romeo, Primario di Terapia Intensiva neonatale all’Ospedale di Rimini, conosce a fondo questo iter e da oltre 20 anni si interessa agli aspetti bioetici della medicina che lo determinano: “se non tenessimo in considerazione la posizione dei genitori è come se ci impadronissimo di una vita che non ci appartiene; allo stesso tempo non possiamo nemmeno imputare totalmente a loro una scelta cosi delicata”.
Spesso, infatti, i genitori non solo sono terrorizzati dalla possibilità di perdere il figlio ma hanno la preoccupazione che in caso di sopravvivenza sopraggiungano handicap neurologici, più o meno importanti, ai quali incorrono il 50% dei bambini che nascono sotto le 26 settimane.
“La cosa giusta – continua Romeo – è permettere alla coppia di esprimere liberamente ansie e desideri e allo stesso tempo assumersi quella responsabilità insita nella professione medica di offrire la propria competenza a chi ne ha bisogno. Ogni gravidanza indipendentemente dalla sua durata e dal suo esito, è parte integrante del vissuto della madre e del padre, ha un suo ruolo ed una sua intrinseca importanza. Per questo è fondamentale un’equipe medica in grado di sostenere psicologicamente i genitori”.
Per questo, all’interno dell’ospedale “Infermi”, il personale di Terapia intensiva ha avviato un progetto di supporto pensato per chi vede il proprio figlio salvarsi come per chi lo perde irrimediabilmente. Inoltre nel reparto, grazie all’impegno dell’associazione riminese Colibrì, è garantita la presenza di una psicologa ed è stato allestito un alloggio affinché le madri possano vivere accanto al figlio prematuro.
Il diritto ad una diagnosi
Un’altra ombra si proietta sulle famiglie vittime di una morte intrauterina: l’assenza, nel 30% dei casi, di una causa apparente. La medicina non è una scienza esatta e non possiede gli strumenti diagnostici per dare una risposta a tutto ma d’altra parte è da pochi anni che, all’interno della comunità scientifica, si discute sulle cause della natimortalità e sul diritto di una madre ad avere delle spiegazioni. Nell’azienda ospedaliera riminese vengono eseguiti esami autoptici e indagini genetiche, in caso di morte perinatale, al fine di individuare i fattori di rischio e di prevenire il più possibile altri lutti. Ma a livello nazionale la situazione non è cosi rosea: nonostante la legge n° 31 del 2 febbraio 2006 stabilisca, con il consenso di entrambi i genitori, l’obbligo di studio del nato morto e del neonato deceduto dopo il parto in centri scientifici autorizzati, spesso gli esami non vengono eseguiti, la prognosi non arriva e la proposta di uniformare la ricerca autoptica in Italia non decolla. È ciò che denuncia l’associazione CiaoLapo, fondata nel 2007 da due medici che hanno perso il proprio figlio negli ultimi 12 giorni di gestazione. Il suo scopo è fornire strumenti concreti per elaborare il lutto e permettere l’accesso alle informazioni mediche e psicologiche sulla morte perinatale.
“Non è vero che i nostri bambini muoiono senza motivo – afferma la dott.ssa Claudia Ravaldi fondatrice dell’associazione – una buona diagnosi prenatale e una accurata autopsia possono spiegare il 70% delle morti; basta applicare correttamente i protocolli disponibili e seguire ogni gravidanza come fosse unica e speciale. L’associazione è il regalo che Lapo ci ha lasciato nel suo breve e preziosissimo passaggio. Le persone che ne fanno parte sono genitori di creature che il mondo non ha conosciuto, convinte che insieme sia più facile superare il lutto che portano dentro. Del resto non è possibile curare la morte, ma ci si può prendere cura del dolore che resta”.
E se è grande il vuoto lasciato da un figlio atteso, percepito e amato, che viene a mancare ancor prima di essere stato abbracciato, altrettanto desolante è il vuoto scientifico che costringe i genitori a fare i conti con l’inspiegabilità, spesso portatrice di dubbi e sensi di colpa.
La rielaborazione del lutto
Sono gli stessi medici ed infermieri a sottolineare come la morte perinatale rappresenti un complesso lavoro clinico che in primis prevede l’accompagnamento della madre lungo un percorso di rielaborazione del lutto. Lo sa bene il professore Giuseppe Battagliarin, Primario di Ostetricia e Ginecologia all’Ospedale di Rimini.
“Il dramma del decesso in utero, che in provincia tocca 3 donne su mille, se non adeguatamente affrontato può determinare problemi psicologici importanti, fino a pochi anni fa sottovalutati dalla medicina. In passato – aggiunge – si commetteva l’errore di non mostrare alla madre il nato morto, di farlo sparire come se non fosse mai esistito; al contrario è essenziale che la donna veda il figlio che per mesi si è mosso ed è cresciuto dentro il suo corpo, che possa piangere sulle sue spoglie. Ancora oggi alcuni medici ostetrici effettuano il taglio cesareo per estrarre il feto morto, assecondando le richieste di una madre sconvolta che istintivamente teme il travaglio indotto nonostante in questi casi venga reso indolore attraverso una forte analgesia. Agendo così non solo si sottopone la donna ad un intervento fine a se stesso ma la si condanna ad un parto cesareo nelle gravidanze successive. A mio parere – conclude – è proprio in questi momenti che il medico deve intervenire, prendere per mano la paziente e condurla, nella sua disperazione, verso la scelta più ragionevole; perché tornerà ad avere un altro figlio e dovrà poterlo fare con serenità e col minore rischio possibile”.
Viola Martinini