Povertà e fame hanno sempre indotto un imprecisato numero di viandanti a spostamenti lunghi e faticosi per offrire il loro lavoro in cambio di pochi soldi, talvolta d’una minestra e un posto letto nella stalla. Erano spazzacamini, seggiolai, materassai, ombrellai, stagnini, cucitori di cocci, battirame (bàtràm), barbieri, fabbri, falegnami, intagliatori, acquaioli (vendevano per strada l’acqua prelevata dai pozzi. A Comacchio fu in attività fino al ’50, brentatori (spegnevano gli incendi portando acqua con la brenta, una specie di tino), capillari (acquistavano capelli), dentisti ambulanti, lampionai (spegnevano i lampioni a gas con un’asta su cui svettava una sorta di imbuto rovesciato), liutai (costruivano strumenti musicali nei secoli d’oro per l’Italia: il ’600 e ’700), scrivani di strada, ciabattini chini sul deschetto a lavorar di lesina e trincetto, carrozzieri (a Falda di Montefiore Conca l’artigiano Giuseppe Tenti, unico in Italia, ripara carrozze e calessi), sartine e mondine il cui duro lavoro (quasi scomparso agli inizi ’900), consisteva nell’estirpare, mani e gambe nell’acqua per otto ore, le piante infestanti nelle risaie. Il più duro e penalizzante dei mestieri era comunque il minatore: una storia lastricata di morti.
La canapa
Quella della canapa, per secoli una storia romagnola grazie ai mulini e alle acque convogliate in canali o lungo gli alvei naturali, ha avuto il massimo sviluppo tra il XVI e il XVIII secolo. Molteplici le fasi di lavorazione: semina, taglio del canapulo (fusto legnoso), tiratura, macerazione, distacco in due fasi delle fibre dal canapulo, scavezzamento (grossolana rottura degli steli), asciugatura all’aria nei prilot (piccole stipe), gramolatura (gramareja) o maciullatura, concia (cunza) cioè untura con grasso di maiale per ammorbidire, pettinatura fascio per fascio selezionando la stoppa (fibra corta) dal garzolo (parte migliore), filatura con la rocca o ulteriore raffinazione, incannatura, annaspamento, orditura, tessitura, lisciatura della tela. Nei casolari di campagna, soprattutto in inverno, si filava per uso familiare. La canapa bolognese semilavorata o in funi e spaghi veniva esportata, ottime acquirenti le marinerie di Malta e Venezia, quest’ultima tentò di far suoi gli eccezionali garzolari, che da metà ottobre giravano per le case dei contadini trasformando la canapa grezza in garzolo e stoppa per la filatura (garzolari e cordari trasformavano con la masola [mulinello] parte della stoppa e del garzolo in corde). Le contadine andavano alla gramolatura in agosto e settembre agghindate a festa; pare che l’operazione avesse particolare importanza per gli amori contadini, tanto che con disposizione sinodiale di Monsignor Piazza vescovo di Forlì si vietò di gramolare durante la notte. In fabbrica le cose non sono andate molto diversamente. Nel 1920 la Corderia di Viserba (del comasco Giuseppe Dossi), entrata a far parte, dopo rimaneggiamenti strutturali e societari, della Società Linificio Canapificio Nazionale, ha dato lavoro a mezzo Paese, tra cui Renato Baietta entrato nello stabilimento dodicenne, come la cognata Giannina, ed uscitone quando questo ha chiuso i battenti.
La sartina
Faceva la sartina, la chiamavano la rossa. Figlia di un fattore di Corpolò, penultima di sei sorelle e due fratelli (tutti gagi), occhi celesti, chioma fiammeggiante, Dina Tamburini (nella foto) ha imparato taglio e cucito in una qualificata bottega riminese. Messasi in proprio con la mitica Singer a pedale, ha lavorato fino a ottant’anni. Dopo il fronte, abitando una villetta in viale Carducci (Piazzale Tripoli) a due passi da un comando inglese, ha cucito abiti per le loro spose e fidanzate lontane, oltre che per clienti come la marchesa di Bagno. Trasferitasi a Roma nel ’46, ha cucito preziosi paramenti per il negozio d’arte Sacra De Ritis ed ha creato capi d’alta moda per le dame della nobiltà: Carpegna, Aldobrandini, Cola di Rienzo, Pietromarchi, Misciatelli. Poi l’amore per la sua Rimini l’ha fatta tornare. Il 5 luglio 2008, pochi mesi prima di salutare, Dina ha festeggiato i cento anni.
Castagne e brustolini
Il murale di G. Luciano Maroncelli al civico 17 di via Marecchia in Borg d’San Zulien ben interpreta la scomparsa dell’inquilina Genoveffa Lombardi (orfana di madre a nove anni) quando nell’anno del nevone cuoceva castagne al porto di Rimini sul focone (alto fornello con brace). L’operosa Genoveffa, due figlie, Luisella e Maria Clara, ha sfornato castagne in cartoccetti e imbutini di carta paglia anche nei cinema dai primi anni ’50 fino al 1991, dal 14 ottobre (San Gaudenzo) a febbraio. Il resto dell’anno era al porto con la bancarella di brustolini, lupini, mandorle tostate, ceci brustoliti, frutta caramellata, zucchero filato, bibite. La figlia Luisella, che l’ha affiancata nel lavoro e quando la madre s’è ritirata ha continuato il mestiere col marito Piero, ricorda che le ripeteva sempre: “per lavorare bene, dobbiamo farlo in tranquillità, senza disturbare gli altri”; e senza disturbare Genoveffa ha preparato leccornie come i semi di zucca che lasciava a bagno un intero giorno e metteva a sgocciolare in un sacco di iuta prima di cuocerli al Forno Giannini.
Alfiero Nicolini aveva tredici anni quando tutte le sere, cassetta al collo dalle 20 alle 24, ha iniziato a vendere al cinema Astra di Cesenatico brustulini, luvéin, brustighéd (ceci brustoliti), coca cola, birra, aranciata, gassosa, chinotto Neri, Sinalco (bibita dolce). “Il lavoro mi piaceva, vedevo film gratis ogni sera, ma se erano proibiti non potevo stare in sala durante la proiezione. Crescendo ho fatto tre lavori contemporaneamente: alle 6 e alle 18 consegnavo pane negli alberghi, poi lavoravo in un ristorante e la sera ero all’Astra. Ci crede che quando ho ritrovato la mia cassettina tra le vecchie cose ho pianto?” Nicolini, diventato poi fornaio e per 29 anni marinaio, recita nella compagnia di Francesco Bianchi “Gli altri siamo noi” e gestisce una pompa disel-benzina per la Cooperativa Casa del Pescatore di Cesenatico.
L’arrotino e il maniscalco
Aurelio Vecli, arrotino di generazione, ha iniziato il mestiere giovanissimo. Dopo anni di duro lavoro nel Trentino con la pesante mola affilatrice azionata da leve a pedali è sceso a Rimini ed ha allestito in via Bertola, assieme al nipote Gilberto Belli, una bottega di arrotineria-coltelleria. Il puntiglioso lavoro, gli assidui clienti gli hanno consentito di aprire, sempre col nipote, la “Casa del coltello” in Borgo San Giovanni (Arco d’Augusto). “Oggi vendiamo coltelli di prestigio e affiliamo in negozio come una volta, mola a pietra e acqua” spiega orgogliosa la nipote Enza Cimino, vedova di Gilberto e titolare.
“Ieri il mascalcìa (maniscalco) lavorava a bottega anche come fabbro, adesso va dal cliente con camioncino, attrezzi e impianto elettrico”, continua il savignanese Agusto Brigliadori che oggi affianca al mestiere del mascalcìa un lavoro part time e raccolte dialettali come Caval e cavalèti.
“I ferri devono adattarsi al cavallo, non viceversa, a volte ne occorrono quattro differenti. Quando il ferro è caldo si poggia sullo zoccolo per l’impronta e si riposiziona quando è freddo, si mettono i chiodi, si lima, si rifina. Se un cavallo non vuol farsi ferrare e calcia, si lega la zampa con una balza (cinghia di cuoio) sul pastorale (parte sopra zoccolo e nodello). Ferrare un cavallo già ’cliente’ di un professionista è una gran soddisfazione”.
Maria Pia Luzi