Giuliano all’età di 17 anni ha perso l’uso delle gambe, ma non ha rinunciato a giocare a basket; Marco ha un fisico forte e possente e gioca a calcetto; Giulia studia e quando può va in Africa.
Lo sport, la voglia di divertirsi, accomunano tutti i giovani. Ma ve ne sono alcuni che si sono scavati una nicchia, un ambito in cui essere felici perché utili agli altri. Giuliano e Giulia, a parte il nome, hanno in comune questa spinta e questa luce negli occhi. Marco appartiene alla schiera di quei ragazzi che il vescovo Francesco ha definito “tristi” nella sua frase pronunciata durante la chiusura dell’anno paolino “quant’è triste vedere giovani tristi”. La noia di un mondo luccicante ma effimero sembra avvolgerli. Giovani che hanno tutto, ma che allo stesso tempo sentono dentro di loro un vuoto incolmabile.
E allora vale davvero la pena raccontare l’esperienza di chi ha fatto quel passo in più, forse a volte anche per vincerla questa noia. Vale la pena cercare di capire come alcune persone, che siano disabili o normodotate, hanno trovato quel qualcosa che ha fatto la differenza.
La storia di Giuliano
Iniziamo raccontando la storia di Giuliano Bonato, 48 anni, veronese di nascita, riminese d’adozione.
Ci racconti cosa è successo quel giorno di 31 anni fa?
“Stavo lavorando quando mi è caduto addosso un gruppo di bancali. Ho subito capito che non avrei più camminato. Negli anni seguenti ho fatto un percorso di riabilitazione in tempi in cui la disabilità era molto più difficile da vivere rispetto ad ora”.
Cosa ti ha spinto ad andare avanti diventando addirittura un giocatore di basket?
“In quei momenti difficili ho sentito di avere una forza nascosta, lì pronta a venire fuori, ho dovuto fare tutto un percorso su me stesso, basato sull’autostima, ho capito che la vita viene prima di tutto e in essa la voglia di dare qualcosa agli altri è fondamentale. L’ho fatto con lo sport che è la migliore terapia possibile, lo faccio ora con il mio lavoro presso l’Ausl all’Informahandicap dove oltre a fornire informazioni riguardo agli ausili mi occupo dell’archivio e ho svariate mansioni”.
Da quanto tempo vivi a Rimini? E come mai hai deciso di lasciare Verona?
“Sono venuto a Rimini in vacanza nel 1995 e ho deciso di restarci perché ho trovato un’accoglienza senza pari. Volevo crearmi un percorso personale di autonomia, staccarmi dalla famiglia a cui mi ero abituato spesso a delegare anche le piccole commissioni e poi volevo prendere casa, scoprire se potevo farcela da solo. Da lì è stata tutta una catena di eventi che mi hanno dato tanto. Sono stato chiamato a coordinare manifestazioni sportive nell’ambito di BluRimini, ho trovato lavoro, ho preso casa e ho conosciuto Roberta con la quale sono sposato da tre anni”.
Il grande giornalista sportivo Candido Cannavò, in uno dei suoi libri a cui era più affezionato, “E li chiamano disabili”, ad un certo punto scrive “Trasformare la sventura in una sfida gioiosa e consapevole”: è quello che hai fatto tu?
“Certo! Ma vorrei dire che ognuno deve fare la propria strada, ciascuno ha i propri tempi, occorre ritrovare se stessi, la propria unicità, non bisogna fare le cose perché gli altri te lo dicono. Io ad esempio posso essere felice anche solo per andare una sera a cena con gli amici e godere del cibo e della compagnia. Non capisco perché alcuni giovani debbano per forza bere per divertirsi”.
A proposito di giovani, cosa diresti ad un giovane triste?
“Spesso le difficoltà dei giovani sono dovute alla solitudine, al poco amore ricevuto. Io ho avuto la fortuna di avere una famiglia unita. Mio padre all’inizio si vergognava di portarmi in giro in carrozzina, erano altri tempi, una volta dei passanti mi hanno persino fatto la carità. Poi, invece, ha fatto tanto per me, c’era sempre quando avevo bisogno e fin da piccolo mai che abbia sentito litigare lui e mia madre. Sembrano cose banali ma se io oggi sono quello che sono lo devo anche a loro. Occorre imparare a misurarsi con i propri limiti e le proprie capacità”.
Come hai fatto tu con la pallacanestro.
“Certo. È un esempio non solo di sport ma di vita. Dopo le prime difficoltà è diventato naturale palleggiare, muovermi, scontrarmi con gli altri, spingere e cadere per poi rialzarmi. Ti senti padrone di te stesso perché devi fare tante cose insieme, tiri fuori la forza e ti diverti anche, devi gestire la situazione che è nelle tue mani e ne esci più forte. Come nella vita”.
Silvia Ambrosini