At-Tuwani è un piccolo villaggio di circa 150 anime nel sud della Cisgiordania. Gli abitanti sono pastori e agricoltori. Colline, ulivi e piccole abitazioni antiche anche centinaia di anni, punteggiano il paesaggio attorno all’abitato. La zona è di quelle che fanno spesso capolino sulle prime pagine dei giornali. Siamo, infatti, a pochi chilometri da Hebron e Gerusalemme, non troppo distanti dalle sponde del Mar Morto. È una zona difficile. Anzi, difficile è un eufemismo. È zona di scontri, di insediamenti israeliani, di rabbia palestinese. Eppure, un’osservazione più da vicino, da dentro la questione, ci fa capire in poco tempo come le cose non siano bianche o nere, come le ragioni possono anche sfociare in un dialogo o in un punto d’incontro, e come da ogni lato si possa trovare la ragionevolezza. Questo sguardo dall’interno viene da una riminese, la 26enne Alessandra Romano, in Palestina da circa un anno.
“Sono arrivata qui nel novembre del 2008 per Operazione Colomba. Ci occupiamo di controllare le scorte che dovrebbero accompagnare i bambini palestinesi dei villaggi vicini alla scuola di At-Tuwani, oppure accompagniamo noi stessi i pastori con le greggi o i bambini nei dintorni del villaggio. E poi stiliamo dei report per l’ONU e l’UE sulla situazione del villaggio e dei rapporti tra israeliani e palestinesi”.
È davvero una zona così pericolosa?
“Sì, decisamente. Attorno al villaggio ci sono sia avamposti sia insediamenti palestinesi. Entrambi sono protetti dall’esercito. È capitato più di una volta che le frange più oltranziste dei coloni aggredissero i bambini durante il tragitto o che anche la scorta preposta a proteggerli non facesse il proprio dovere. Nei giorni difficili uscire è rischioso, sia che si debba andare a scuola, sia che ci si debba recare a pascolare le pecore”.
Una lotta senza fine
La situazione attorno ad At-Tuwani è molto complessa. Insediamenti e avamposti sono due tipi di colonie diverse. Le prime sono riconosciute e autorizzate da Israele, ma ostacolate dalla comunità internazionale, gli avamposti, invece, sono illegali anche per la legge israeliana, e nascono da un atto di un gruppo di coloni che occupa un territorio, spesso privato, e costruisce sopra le proprie abitazioni. Capita spesso, quindi, che i coloni degli avamposti siano più fanatici e spesso aggressivi di quelli degli insediamenti. Di fatto, però, l’esercito protegge entrambi, in quanto cittadini israeliani in territori pericolosi. Le stesse scorte armate istituite dal parlamento israeliano per la sicurezza dei palestinesi non sempre svolgono il loro dovere. D’altronde l’esercito tende sempre a difendere prima i propri connazionali e poi, eventualmente, le altre persone presenti nella zona.
Com’è la situazione dall’interno? Come viene percepita la cosa da chi ci vive, al di là di come la raccontano i giornali?
“Per prima cosa voglio dire che questa è un’esperienza che mi ha cambiato la vita, anche e proprio perché mi sono accorta che le cose sono molto diverse da come spesso ci vengono riferite. Tutto è fatto di sfumature ben diverse. Le esperienze che condivido qui ad At-Tuwani con chi ci vive sono molto belle e intense. Tutta la popolazione ha scelto di abbracciare la non violenza. Non rispondono agli attacchi e alle provocazioni e cercano di condurre la loro vita nel modo più normale possibile. Dall’altra parte, ci si accorge subito che ci sono coloni e coloni. Se è vero che spesso usurpano dei territori non loro perché non riconoscono i confini tra Israele e la Palestina, è vero anche che non tutti sono fanatici nazional-religiosi. Molti coloni sono persone con gravi problemi economici che cercano di sfuggire alle pressioni delle città e sfruttano le possibilità messe a disposizione dal parlamento israeliano. Per quanto riguarda, invece, i coloni degli avamposti, spesso vengono condannati dagli stessi israeliani che non condividono il loro modo d’agire. E l’equazione colono uguale violento è sbagliata. È ovvio, però, che la situazione è molto complessa, la tensione è sempre alta e anche se si cerca di far funzionare tutto ogni tanto la violenza esplode da qualche parte”.
Come è nata questa tua scelta? Come hai deciso di andare in Palestina?
“È nata proprio perché non mi accontentavo di quello che sentivo. Avevo, e ancora ho, voglia di conoscere e soprattutto comprendere cosa succede nel mondo. Questa non è la mia prima esperienza di volontariato. Ho cominciato presto, a 18 anni. Sono stata in India, dal 2000 al 2002, e là ho cominciato a sfatare molti pregiudizi e luoghi comuni. Quando sono partita ero molto più schierata, ero convinta che l’Occidente avesse tutte le colpe e che le cose fossero molto più definite. Io stesso mi sentivo in colpa, come europea, per quello che succedeva in molte zone del mondo. E invece al di là di quello ho scoperto la gioia di stare con altre persone, di conoscere il mondo con i propri occhi. Il primo impatto è sconvolgente. Arrivano così tante informazioni in una volta sola che tutte le convinzioni sembrano vacillare. Poi, però, ci si accorge che quel desiderio di comprendere e conoscere non si sazia mai, si ha voglia sempre di condividere, di scoprire, di vedere con i propri occhi e di essere partecipe a quello che succede nel mondo”.
Come si coniuga questa tua nuova visione del mondo col tuo essere riminese?
“Rimini è la mia città. Sono nata e cresciuta lì e torno volentieri ogni volta che posso. Però non rinuncerei a quello che faccio ora. Devo rimanere qui ad At-Tuwani almeno un altro anno, e la cosa non mi pesa. Ormai ho trovato un mio ritmo, e penso che finita questa esperienza potrei cercarne subito un’altra. Quando sono partita all’inizio avevo l’intuizione che questa poteva essere la mia strada, quella giusta per me. Ora ho raggiunto la convinzione che sia così. Da questo punto di vista il mondo sembra molto più grande, complesso e bello di come ce lo si immagina da casa. E questa è una cosa che consiglio a tutti. Non c’è per forza bisogno di girare il mondo per capirlo meglio, anche se aiuta. Selezionare le fonti, ascoltare, ampliare le proprie informazioni. Basta attivarsi, e le cose cambiano prospettiva!”.
Stefano Rossini