Carissimi Mattia e Gaia, carissimi tutti,
ad un anno esatto di distanza ho chiesto nuovamente una mano al vostro Vescovo per farvi giungere questo messaggio, che ho pensato di dedicare ad una riflessione su uno strano binomio: felicità e povertà. Posso? Devo però innanzitutto riconoscere i diritti d’autore di quell’abbinamento – a dir poco – stravagante e paradossale: il primo a parlarne, in assoluto, è stato senz’altro Gesù. Ricordate? Il suo discorso programmatico, detto “della montagna”, si apre con un grido di gioia: “Beati…!”, che ritorna in seguito per ben otto volte: sono proclamati beati – cioè felici, fortunati – i poveri, gli afflitti, i miti, gli affamati e gli assetati, i misericordiosi, i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati. È come se Gesù dicesse: “Beati tutti coloro che hanno bisogno di felicità!” perché la felicità viene messa alla portata del loro cuore.
La prima delle otto beatitudini suona letteralmente: “Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Forse l’espressione si potrebbe rendere così: “Beati gli umili che confidano solo in Dio! perché ad essi è riservato il suo regno”. Ma chi sono i poveri in spirito? Sono coloro che hanno una incondizionata fiducia nel Padre, che nutre gli uccelli del cielo e veste i gigli del campo. Poveri in spirito sono coloro che sanno vivere di poche cose veramente essenziali, sanno gustare le gioie semplici della vita e si fanno carico delle miserie e delle pene degli ultimi. Sono coloro che vivono la passione per la giustizia, l’impegno per la pace, la speranza di un mondo nuovo. Sono felici dei beni che ricevono da Dio e più ancora di Dio da cui li ricevono. Si accettano serenamente come sono, lieti anche della loro debolezza, che consente alla forza di Dio di manifestarsi in chiara trasparenza. Non si lasciano possedere dalle cose. Non si deprimono nelle difficoltà. Non si rattristano per i doni e i beni degli altri. Mai si chiudono alle necessità e alle sofferenze dei fratelli…
Questa beatitudine della povertà, come tutte le altre, è l’autoritratto di Gesù. Per capirla bene, dobbiamo guardare a lui. Certamente Gesù non è stato il più povero – almeno materialmente parlando – ai suoi tempi: Giovanni Battista vestiva, mangiava e viveva in modo molto più austero e radicale. Ciò che caratterizza la povertà di Gesù è la sua… “ricchezza”: la straripante pienezza dell’amore del Padre. Gesù è un “povero-felice” perché per vivere gli basta sentirsi e sapersi amato come Figlio. È stracontento del Padre: è lieto di ricevere tutto da lui e di essere ricco solo del suo amore. Per questo la sua povertà non è mai acida e arcigna come quella di un Diogene, nudo nella nuda botte, ma non è nemmeno una povertà risentita, musona e arrabbiata come quella di un rivoluzionario deluso e frustrato. La povertà del Nazareno è libera e lieta: libera anche di non essere riconosciuta, se è vero che lui non ha paura di passare per “un mangione e un beone”. E lieta, anche nella penosa precarietà di chi non ha mai “dove posare il capo”.
Ma perché Gesù “da ricco che era, si è fatto povero”?
Ci verrebbe subito da rispondere: per amore verso di noi, e in effetti san Paolo, scrivendo ai cristiani di Corinto chiarisce: “Si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà” (2Cor 8,9). Ma questa motivazione “orizzontale” non è quella primaria. Assolutamente prioritaria è la motivazione “verticale”: Gesù si è fatto povero per essere tutto del Padre. E il distacco dai beni non è il centro della sua figura, ma la cornice, anche se si tratta di una cornice tutt’altro che secondaria. Il centro è l’amore del Padre, nel duplice senso: amore ricevuto dal Padre e da lui ricambiato con totale gratuità. Il centro è la sua filialità. Ripeto: Gesù vive nel mondo come il Figlio che è “felice-del-Padre”. Permettetemi una chicca: lo sapevate che la parola “felice” ha la stessa radice di altre parole legate alla esperienza della generazione, come “femmina”, “fecondo”, “feto”, “figlio”? Ecco: Gesù con la sua “felicità-filialità” può addossarsi tutte le nostre sofferenze e patire tutte le oppressioni, tutte le nostre molte infelicità. È venuto a spezzare il cerchio infernale che soffoca gli inermi, gli umiliati, gli afflitti. Il cerchio crudele di questo mondo si è rotto perché vi è entrato il Figlio stesso di Dio, con tutta la sua forza divina e la sua incontenibile, contagiosa felicità.
Carissimi, voi sapete che sono stato dichiarato “beato” dalla Chiesa perché ho vissuto una carità al grado “eroico”. In effetti, nel processo per la mia beatificazione, è stato scritto che distribuivo ai poveri tutto quello che avevo e che riuscivo a raccogliere. È vero: mi recavo dai contadini e negozianti sfollati, che avevano messo in salvo la loro merce. Comperavo, pagando del mio, ogni genere di viveri. Poi con la bicicletta carica di sporte, andavo dove sapevo che c’era fame, malattia, bisogno. Non aspettavo che altri chiedessero, andavo io a scovare i casi di bisogno, nelle grotte, nei rifugi, nelle soffitte o nei casolari dispersi nella campagna. Donavo tutto perché i bisogni e le povertà che vedevo accanto a me, non mi permettevano alcun attaccamento alle cose. La sarta di casa era sempre chiamata a rattopparmi i vestiti: l’unico abito nuovo che mi cucì, fu quello con cui mi vestirono da morto. La mamma mi vedeva tornare a casa spesso senza giacca, quasi sempre senza scarpe, perché trovavo che c’era sempre qualcuno che ne aveva più bisogno di me.
Vi domanderete: ma perché farsi poveri, quando sarebbe meglio impegnarsi ad aiutare i poveri a farsi ricchi? La risposta per me è stata ed è una sola: perché Cristo si è fatto povero per poter essere tutto del Padre. E io sul mio diario avevo scritto:
“Sono pronto a rinunciare a qualsiasi sogno o affetto per essere tutto di Dio”. E ancora: “Essere ostia! Signore, prendi questo povero grano. È tuo. Che io sia triturato per te e che il fuoco dell’Amore faccia di me un pane senza macchia. Essere ostia! Un’ostia è un umile pezzetto di pane che cessa, nella consacrazione di essere pane. Signore, voglio ormai smettere di vivere una vita di vanità, di cupidigia, di sensualità. Non voglio essere più io che vivo, ma divenire te. Io, la tua ostia viva!”.
Sapete che mi piacciono tanto i racconti. Per spiegarvi la mia scelta della povertà, vi racconto questa storia, in cui mi rispecchio abbastanza fedelmente.
Un principe stava attraversando un deserto, seguito da una carovana di cammelli che trasportavano i suoi beni. A metà del cammino, sfinito dalla fatica, un cammello crollò a terra boccheggiante e non si rialzò più. Un forziere che era fissato sul suo dorso rotolò lungo il ripido pendio di una duna, si sfasciò e sparse nella sabbia il suo prezioso contenuto. Il principe non poteva e non voleva rallentare la marcia. Poiché non c’erano altri forzieri disponibili e i cammelli erano già sovraccarichi, diede il permesso ai suoi servi di fermarsi a raccogliere quanto potevano portare con sé: quegli oggetti sarebbero diventati loro proprietà. Mentre egli continuava il suo viaggio, i suoi servi si attardarono per agguantare qualcosa. Avvertendo un lieve rumore di passi, il principe si accorse che c’era qualcuno che non si era fermato, ma aveva continuato a camminare dietro a lui. Si voltò e vide che era un giovane paggio. “E tu – gli chiese il principe – non ti sei fermato a raccogliere niente?”. Il giovane rispose: “Io seguo il mio signore”.
Questo giovane, che preferisce seguire da vicino il suo signore piuttosto che impossessarsi di oggetti preziosi, è ben diverso dal giovane ricco del vangelo, il quale, alla proposta di Gesù, di lasciare tutto per seguirlo, non se la sentì di rinunciare ai suoi beni e “si fece scuro in volto e se ne andò via triste”. Io ho preferito seguire il Signore Gesù, farmi povero come lui, per abbracciarlo e servirlo nei poveri. Così ho trovato la gioia. E sono stato davvero “beato”, cioè “felice”, già in vita.
E voi?
Vi saluto con tanta simpatia e vi accompagno con la mia preghiera
Alberto