Vale allora la pena ricordare che la nostra Chiesa riminese si è imparentata con diverse realtà africane per la presenza di don Marzio Carlini, missionario in Zambia dal 1980 al 1988, con don Claudio Comanducci missionario in Mozambico per 5 anni anni, con la Comunità papa Giovanni presente coi suoi operatori laici in diversi Paesi dell’Africa per un’opera di assistenza ed educazione nel campo dell’handicap, dell’H.I.V e delle povertà in genere. E poi il grande impegno diretto di partecipazione della nostra diocesi al lavoro missionario e umanitario della dottoressa Marilena Pesaresi; impegno per sostenere il suo ospedale e nell’accogliere in Italia i malati (Operazione Cuore) che hanno bisogno di cure e interventi specialistici che là non potrebbero ricevere.
Ma c’è anche un altro piccolo particolare che ci tiene uniti all’Africa, al di là di un necessario e universale sentimento di solidarietà: la presenza fra noi di preti africani, al servizio delle nostre comunità parrocchiali.
Don Marzio, riminese col cuore in Africa
Andiamo con ordine e, parlando di Sinodo, incominciamo a sentire cosa ne pensano i preti che hanno vissuto per anni i problemi degli africani.
“È da troppo tempo che manco dall’Africa per poter parlare oggi di Sinodo, – si scusa subito don Marzio – però quel che mi sento di dire, come premessa a tutto, è che il Sinodo africano dovrebbe essere tenuto in Africa, fra la gente ed i suoi problemi, fra la povertà e la fame di quei popoli, non fra i marmi e le bellezze del Vaticano. È vero che oggi molti vescovi appartengono alla cultura e alla tradizione africana, ma portali in Vaticano suona come il tentativo di sottrarli ai veri problemi pastorali e sociali delle loro Chiese”.
Il tema del Sinodo parla di riconciliazione, di giustizia e di pace; per la tua esperienza in Zambia come credi si debba affrontare?
“Affrontare questi tempi è affrontare l’intero universo africano. L’origine del male sta nella forzata europeizzazione dell’Africa attraverso l’esperienza coloniale. Anche se i popoli africano hanno ottenuto la loro autonomia, in realtà lo stile dei governanti è rimasto quello delle Colonie: autoritario e oligarchico. I presidenti vivono come vivevano i nostri Re nell’800.
Devo però aggiungere che in Zambia, dove ho vissuto la mia esperienza, si respira un clima di maggior democrazia e non si registrano quei contrasti etnici che invece esplodo in altre parti dell’Africa”.
Cosa ne pensi dell’inculturazione della fede e della religione?
“Anche la religione, alla stregua della politica e dei governi, mi sembra molto europeizzata. Questo emerge soprattutto nella liturgia, quando sono stati imposti riti, canti, gesti totalmente europei. Quando sono arrivato in Africa addirittura si cantavano parole e melodie europee e non africane. Per fortuna, con l’elezione di vescovi africani, le cose hanno incominciato a cambiare e speriamo che si vada sempre di più verso quella spontaneità e gioia che sono la vera anima dell’africano”.
Don Claudio:
“È tempo di un Sinodo coraggioso e profetico”
Per don Claudio Comanducci, il Sinodo dovrebbe essere “profetico” nel senso di “coraggioso”: “La Chiesa africana mi sembra troppo istituzionalizzata e ancora legata ai poteri e agli schemi di vita degli europei. Il Sinodo dovrebbe sì aprirsi e affrontare le sfide della globalizzazione se vuole veramente inculturare la fede, ma deve anche tenere presente che la globalizzazione rischia di vanificare ogni sforzo: se viene meno la tradizione si cade nel vuoto morale ed esistenziale”.
P. Emanuel (R.D. Congo)
“È il tempo della nostra responsabilità”
Padre Emanuel Mulindwa (nella foto) studia pastorale familiare a Roma presso l’Istituto Giovanni Paolo II. Nel tempo libero dallo studio collabora con don Enzo nella parrocchia di Bordonchio. Padre Emanuel è africano dell’Africa, della Repubblica Democratica del Congo e perciò direttamente interessato al discorso.
“Il tema della riconciliazione, giustizia e pace dovrà porre i Padri sinodali di fronte a tre piste di lavoro: la responsabilità degli africani, la comunità internazionale e le responsabilità politiche. Credo che si debba insistere molto sulla responsabilità di noi africani. Non possiamo e non dobbiamo aspettarci sempre tutto da fuori; dobbiamo essere noi a realizzare la riconciliazione fra le tante etnie presenti in ogni singolo paese, cercare la giustizia e la pace. Noi africani dobbiamo capire che a fronte di diritti ci sono anche dei doveri. Il compito di educarci a questo segna una via lunga e difficile, ma indispensabile per il nostro futuro”.
Hai accennato al problema delle molte etnie: cosa serve per affrontarlo?
“Servono leaderes de la communauté che sappiano guidare le varie tribù verso la comprensione e la collaborazione. Leaderes a tutti i livelli, anche nelle piccole comunità cristiane dei villaggi e delle campagne”.
E cosa diresti a riguardo delle Comunità internazionale e dei politici africani?
“Riguardo alla Comunità internazionale dobbiamo riconoscere che c’è bisogno di aiuto, ma dovrebbe essere un aiuto più calibrato, meglio finalizzato e a sostegno delle vere democrazie. Quanto alla politica dei singoli Paesi dovrebbe tenere maggiormente conto che non si può parlare di giustizia e di pace senza un programma economico e di sviluppo che favorisca anche le popolazioni più povere e marginali”.
Per finire, che ne pensi del Sinodo “Africano” in Vaticano?
“Mi sembra un falso problema. Meglio concentrarsi sui problemi reali… e questi si possono affrontare anche se si è in Vaticano. Del resto dobbiamo imparare a vivere nella grande famiglia che è la Chiesa universale, e Roma ce la rappresenta”.
P. Albert (Nigeria)
“Dobbiamo imparare a capirci”
Di passaggio, ma provvidenziale, è la presenza di padre Albert Ikpenwa, nigeriano, da noi conosciuto per precedenti servizi pastorali nelle nostre parrocchie. Dottore in teologia morale, ha studiato a Roma ed ora è impegnato in una esperienza pastorale di due anni in Germania.
“Io mi auguro che il Sinodo sappia dire al mondo, alla Comunità internazionale, che gli africani non hanno solo bisogno di aiuto, ma hanno anche tanta ricchezza in umanità e cultura da dare. Sicuramente noi africani dobbiamo essere più responsabili di noi stessi e del nostro futuro politico ed economico. Purtroppo il nostro problema endemico è la frammentazione nelle numerosissime etnie. Solo in Nigeria si parlano ben 250 lingue, accanto alla lingua ufficiale che è l’inglese. Dunque, dobbiamo imparare a collaborare e a capirci fra di noi se vogliamo incominciare a risolvere qualche nostro problema. Naturalmente credo che il compito più pressante per il nostro Sinodo sia quello di portare il messaggio cristiano nella nostra cultura. Cristo deve diventare la forza motrice per la riconciliazione, la giustizia e la pace”.
Qualcuno ha criticato il fatto che il Sinodo si svolga in Vaticano anziché in Africa.
“Anche i Vescovi, per il primo Sinodo del ’94, hanno protestato. C’è però da tenere conto che un simile evento, celebrato in Vaticano, avrà sicuramente una maggior risonanza mondiale, mentre in Africa potrebbe passare totalmente sotto silenzio. Abbiamo bisogno di far sentire la nostra voce e speriamo che sia una voce forte e rassicurante per tutti”.
Come a tanti sarà capitato, anche alla mia porta, spesso, viene qualche fratello africano a bussare, col suo borsone pieno di cianfrusaglie inutili. John, fuggiasco dalla Nigeria dal tempo della guerra civile, viene spesso da me e così, l’ultima volta, mi è venuta voglia che chiedergli: secondo te, cose serve all’Africa?
“All’Africa serve un cuore. All’Africa serve di superare la frammentazione nelle mille tribù, se vuole raggiungere l’unità e l’identità di Paese”.
Io non so se John sia cattolico o no. Però tutte le volte che viene da me mi chiede e mi dà la benedizione. E dunque, che questo suo sogno diventi realtà, grazie anche al contributo di questo Sinodo.
Egidio Brigliadori