Più puntuale del postino. Non sono ancora finite le ferie ed il Vescovo ha già chiamato tutti i suoi sacerdoti al lavoro. Ha inviato loro una lettera, un lungo documento, che deve aver impegnato buona parte delle sue brevi ferie nella terra natale. Il titolo è “Prima di tutto fratelli”, il tema è quello della comunione, specie fra i presbiteri. Come già nel settembre scorso la lettera “Abbagliati dal suo volto” apriva l’anno dedicato alla contemplazione, così questo nuovo documento, nato in occasione dell’anno sacerdotale, inaugura il tema scelto come direttiva pastorale, quello della comunione.
Il tesoretto di Loreto
Il primo riferimento nella lettera è all’esperienza di Loreto, momento “di fraternità attraverso la condivisione della nostra fede, dei nostri ideali ed affetti, in una parola della nostra vita sacerdotale”.
Poi un accenno al Curato d’Ars e ai suoi 230 fedeli di quel minuscolo villaggio: “Un buon pastore è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare a una parrocchia”.
Mille voci,un solo coro
Il tema dell’anno prossimo scrive mons. Lambiasi sarà: “…e di Me sarete testimoni – Mille voci, un solo coro”. “Sì, siamo testimoni di Lui non alla spicciolata, come individui «sfusi», disarticolati e dispersi, ma come figli radunati e uniti nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo. La nostra comunione è la prima, insostituibile testimonianza che siamo chiamati a dare al mondo”.
Relazioni a misura trinitaria
Ma per fare comunione, a fondamento di tutto, – dice il Vescovo- dobbiamo “contemplare la santa Trinità, la fonte prima e il modello insuperabile della comunione ecclesiale”.
“Possiamo dire che le tre Persone sono ognuna con le altre, per le altre, nelle altre. Ecco le preposizioni trinitarie: con-per-in. L’esatto contrario delle relazioni anti-trinitarie: gli uni senza-contro-sopra gli altri.
La riscoperta della Chiesa-comunione è andata di pari passo con la riscoperta della Trinità come mistero centrale della fede cristiana.
«Spiritualità della comunione» è vivere una tale fraternità che essa non si potrebbe spiegare se Dio non fosse uno e trino. Alla auspicabile domanda: perché i cristiani si amano tanto?, dovrebbe scattare immediata la risposta: perché il nostro è un Dio di persone che si amano, al punto da essere tre in uno”.
Riuscire a disarmarsi
“La nostra comunione fraterna – continua mons. Lambiasi – non è idillio patetico o sterile tenerume: essa abita in via della croce. Occorre imparare a perdere. È necessario che muoia il mio io possessivo e vorace, è indispensabile non essere più io a vivere, ma Cristo in me, per poter condividere “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”. Quei sentimenti sono l’umiltà: Cristo da ricco che era si fece povero per noi; la gratuità: non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; la carità: ci ha amato e ha dato se stesso per noi; il perdono: mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi. E qui il vescovo Francesco propone una bellissima citazione del patriarca Atenagora su cosa significhi percorrere la via della croce:
“Occorre fare la guerra più dura che è quella contro se stessi, bisogna riuscire a disarmarsi. Ho fatto questa guerra per anni ed è stata terribile, ma adesso sono disarmato, non ho più paura di nulla poiché l’amore caccia il timore. Sono disarmato della volontà di aver ragione, di giustificarmi squalificando gli altri. Non sono più in guardia, gelosamente aggrappato alle mie ricchezze. Accolgo e condivido. Non tengo in modo particolare alle mie idee, ai miei progetti; se me ne vengono presentati dei migliori, o anche non migliori ma buoni, li accetto senza rimpianti. Ho rinunciato al comparativo. Ciò che è buono, reale, vero è sempre il meglio per me. Ecco perché non ho più paura. Se ci si disarma, se ci si spossessa, se ci si apre al Dio-uomo che fa nuove tutte le cose, allora lui cancella il brutto passato e ci rende un tempo nuovo nel quale tutto è possibile”.
Prossimo se mi approssimo a te
La fraternità sacerdotale non è di tipo funzionale o puramente morale, ma di natura sacramentale, in quanto trova la sua radice nel sacramento dell’ordine, il quale a sua volta si radica nel battesimo. “Ma l’altro – insiste il vescovo Francesco – mi diventa «prossimo» solo se io mi «approssimo» a lui, se mi decido a uscire da me. Se mi metto in cammino e mi avvicino a lui. Se mi impegno lealmente a valicare le frontiere dei sospetti e a frantumare le barriere delle diffidenze. Se faccio mie le sue sofferenze e le sue gioie.
Amarsi concretamente da e tra fratelli significa ricordare sempre che la carità non è un argomento, è un esercizio; si sperimenta, non si indaga; non richiede di essere elucubrata, domanda piuttosto di essere vissuta. Gli atteggiamenti da coltivare sono la stima, l’ascolto, l’attenzione, l’aiuto reciproco, il perdono, la condivisione, l’incontro.
Casa-famiglia, non piramide
“Papa Benedetto XVI ha scolpito il profilo della Chiesa con rara efficacia: “La Chiesa è un corpo, non una corporazione. Non è una organizzazione, ma un organismo”. Confesso che quando leggo queste affermazioni, per contrasto mi ritorna davanti agli occhi una pagina del catechismo della mia infanzia: una piramide con su in alto il papa; poi, un gradino sotto, a destra e sinistra, un cardinale e un vescovo; quindi un sacerdote e un frate, e in basso tanti laici. Era l’immagine che aveva prevalso per secoli, quella di una società piramidale sbilanciata sull’aspetto visibile e sociale, a svantaggio della dimensione interiore e carismatica.
Il Vaticano II ha proposto una visione profondamente nuova della Chiesa, o meglio ha riproposto la visione profondamente antica, marcando la fondamentale uguaglianza di tutti i membri del popolo di Dio, in cui la comunione delle persone precede la distinzione dei ruoli e «mette in rete» le varie funzioni. Secondo la Lumen Gentium la Chiesa è «comunione gerarchica», in cui la dimensione istituzionale è inseparabile da quella misterica, ma secondo un rapporto ben chiaro: la struttura è a servizio della comunione, e non viceversa. Pertanto se la comunione senza l’istituzione sarebbe come un’anima senza il corpo, l’istituzione senza la comunione sarebbe come un corpo senza l’anima: un inerte, gelido cadavere.
L’appartenza alla Chiesa diocesana
“Solo la diocesi viene chiamata Chiesa particolare in senso pieno, perché solo essa è immagine e presenza adeguata della Chiesa universale, in quanto ne possiede tutti gli elementi costitutivi: la parola rivelata, i sacramenti, la successione apostolica. In essa si manifesta e si fa presente la Chiesa di Cristo, una santa cattolica e apostolica. Pertanto la diocesi non si riduce a una organizzazione giuridica o a una circoscrizione amministrativa, ma è vera comunità di credenti. La conseguenza per noi sacerdoti è che il nostro ministero possiede una radicale forma comunitaria: può essere assolto solo nella piena comunione dei presbiteri con il vescovo e si deve tradurre in una fraternità sacerdotale affettiva ed effettiva”.
La missione è un dono, non un premio
Qui il Vescovo fa riferimento alla missione, al dono che il sacerdote fa di sè, della sua vita alla sua comunità “un dono gratuito dall’inizio alla fine, una vera e propria grazia «gratis data», insomma un regalo immeritato e sorprendente”.
“La verifica più attendibile di questi atteggiamenti si ha quando arriva l’ora di rinnovare l’obbedienza al vescovo e di dare la disponibilità a cambiare destinazione. Se il presbitero interessato non legge quella decisione in termini di promozione-retrocessione, di sorpasso o di marcia-indietro. Se è convinto che l’obbedienza consiste nel “dare volentieri tutto di sé, in ogni incarico affidato, anche se umile e povero”. Se si fida di quel Dio che sa scrivere sempre dritto anche sulle righe storte degli uomini e, per coloro che lo amano, sa volgere tutto in bene. Se, pur soffrendo la fatica del distacco da una comunità fedelmente amata e gratuitamente servita, quel prete si rimette generosamente e – perché no? – gioiosamente in gioco, perché dal giorno dell’ordinazione fino all’ultimo ha rinunciato a programmarsi la vita. Se aiuta i suoi fedeli a fare un salto nella fede per accogliere colui che viene nel nome del Signore e per benedire colui che nel nome del Signore va a lavorare in un’altra parte della vigna… felice quel prete.”
Le patologie della comunione
Mons. Lambiasi segnala due patologie che possono insidiare la salute della Chiesa. Si tratta di due pericoli diametralmente contrapposti e che hanno nomi grigi e tristi: individualismo e centralismo.
“L’individualismo si ha quando ogni membro del corpo di Cristo vuol essere il tutto; il centralismo quando invece, a voler essere il tutto, è un singolo membro del corpo. Nel primo caso si afferma talmente la diversità da far morire l’unità; nel secondo caso avviene il contrario. L’individualismo frammenta e disperde; il centralismo assorbe, soffoca e fagocita”. Entrambe sono in fondo “determinate dallo stesso «embolo» che può causare una pericolosa occlusione nel corpo ecclesiale: quell’embolo ha un nome preciso, egoismo. Al riguardo così si esprimeva Giovanni Paolo II: “Spiritualità della comunione è saper «fare spazio» al fratello, portando «i pesi gli uni degli altri» (Gal 6,2) e respingendo le tentazioni egoistiche che continuamente ci insidiano e generano competizione, carrierismo, diffidenza, gelosie”.
Comunione, prima missione
Competizione, diffidenza, carrierismo…: è una cupa litania di veri e propri peccati contro lo Spirito Santo, il cui «carisma» è invece quello di unificare diversificando, di abbracciare senza soffocare, di raccogliere e concentrare senza mai trattenere. È il moto di sistole e diastole della Pentecoste. Solo un presbiterio che si lascia guidare dallo Spirito e nutre sincera fiducia nel ministero del vescovo può superare quelle inconfessabili «tentazioni egoistiche» e aiutare la comunità diocesana a prendere il largo. Del resto ogni comunità cristiana, di qualsiasi tipo essa sia, è chiamata a «dire» al mondo alcune importanti realtà. Le quali, se «parlate» o enunciate verbalmente, possono suscitare forme più o meno larvate di scetticismo, ma se realizzate, acquistano una grande forza missionaria, una carica potente di segno, una capacità di esprimere realtà che spesso le parole hanno logorato e non riescono più a dire. È per questo che si può affermare senza dubbio che la comunione è la prima missione. L’amore che unisce è lo stesso che spinge a comunicare anche agli altri l’esperienza di comunione con Dio e i fratelli. Crea cioè gli apostoli.
In questo modo sarà più facile superare il rischio di insidiose «schizofrenie»: quelle che dividono contemplazione e azione, comunione fraterna e ministero pastorale.
La Diocesi è soggetto fondamentale
Citando poi il Catechismo degli adulti della CEI scrive: “La Diocesi è il fondamentale soggetto pastorale e missionario. Ad essa devono fare riferimento tutti i fedeli e le loro molteplici aggregazioni, quali le parrocchie, le comunità religiose, le associazioni, i movimenti, le piccole comunità, i gruppi. Concretamente il vescovo, con la cooperazione del presbiterio e con l’opportuna consultazione di altre componenti ecclesiali, stabilisce alcuni obiettivi, linee e impegni comuni, evitando però l’uniformità che tutto appiattisce, lasciando spazio alla creatività e originalità dei vari soggetti. Da parte loro, le aggregazioni di fedeli devono guardarsi dalla tentazione dell’autosufficienza e, pur attuando iniziative proprie di formazione e di apostolato, devono rimanere aperte al dialogo rispettoso e cordiale, lasciando spazio per momenti di incontro e di collaborazione con altre realtà ecclesiali. La carità esige sia che si valorizzino i carismi particolari sia che si costruisca una unità pastorale concreta a livello diocesano”.
Tanti fratelli più Uno
La lettera si conclude con l’augurio di “diventare un Presbiterio di fratelli sempre più uniti, sempre più Uno”.