Appaiono, mentre camminano sull’autostrada e, solo il ritrovamento di qualche cadavere nei fossi guadagna poche righe di cronaca nera. Sono i clandestini, figure astratte che da paesi sconosciuti giungono a noi nei modi più vari e pericolosi. Uno ha accettato di raccontare a il Ponte la sua storia. Ve la proponiamo.
“Mi chiamo Maysam, sono afgano di etnia azarah, la maggioranza è pashtun, musulmani sunniti, mentre noi siamo sciiti. Quando ero ancora piccolo, mio padre, funzionario all’epoca in cui il governo afgano era filo-comunista, venne ammazzato in seguito alla caduta del regime. Qualche anno dopo, un gruppo di talebani entrò in casa nostra e prelevò mio fratello.
Nella nostra zona ci fu un periodo di grande terrore. Un giorno mia madre, mentre andava a fare spesa, saltò in aria su di una mina. Così a 10 anni rimasi solo, ma avevo una grande casa con terre e un bel frutteto. Uno zio dichiarò che anche lui aveva diritto alla casa e la occupò. Se volevo, potevo restare con lui. Non avevo scelta ed accettai. Qualche mese dopo, comprò una macina a mano per fare la farina. Fu messa in una specie di magazzino che divenne la mia abitazione e quello il mio lavoro, un lavoro molto faticoso e senza alcun compenso. Sempre lì, lo zio pensò di sistemare un piccolo spaccio di generi di prima necessità, affidato a me.
La fuga
La mia vita era tanto dura che, quando apparvero al nostro villaggio tre grandi camion venuti per caricare tronchi, colsi l’occasione per fuggire. Di notte mi infilai sull’asse delle ruote di uno e… via! Arrivai così a Kandahar, dove mi misi a cercare un passaggio verso l’Iran, ma tutti mi chiedevano soldi e io non ne avevo. Trovai però un lavoro in campagna che durò qualche mese, la paga ricevuta mi consentì di arrivare vicino al confine con l’Iran. Qui, un ragazzo più grande ed esperto di me, mi suggerì il modo per ottenere un passaggio: dovevo dire che mio padre lavorava in Iran e che avrebbe pagato lui per me. Così feci.
In nove attraversammo di nascosto il confine, ma quando la mia bugia fu scoperta, il mio accompagnatore mi vendette: avrei lavorato tre anni come manovale in una cava di pietra e la mia paga se la prese lui. Il padrone, però, era un brav’uomo e, alla fine del periodo, mi cercò un altro lavoro come aiuto giardiniere in un centro sportivo dove c’era anche l’alloggio.
La prigionia
Un brutto giorno la polizia fece una retata allo stadio e catturò tutti i clandestini che vi lavoravano. Per tre mesi mi tennero in prigione poi, fummo rimandati in Afghanistan. Pensai di tornare a casa, di chiedere perdono allo zio, appena mi vide, mi scacciò. Allora mi rivolsi al muftì, in moschea, per avere aiuto. Questi venne con me a parlare con lo zio che, alla fine, acconsentì a riprendermi presso di sé alla solita condizione: che lavorassi per lui gratis. Rimasi lì tre anni, dovevo cercare l’acqua e fare i pozzi usando solo piccone, badile e braccia. Una sera, l’atteggiamento e le poche parole di una cugina mi misero in allarme. Capii che sarei stato travolto da un’accusa infamante, che la mia vita era in pericolo. Me ne andai il più velocemente possibile.
Ritorno a casa
Lavorai in nero qualche mese in Iran, poi decisi di entrare in Pakistan, raggiunsi la Cambogia e infine Singapore: un po’ a piedi, un po’ con mezzi di fortuna, facendo lavori in nero per pagare i tanti “passatori” necessari. Da Singapore col traghetto arrivai a Bali. Qualche mese di lavoro nei campi per poter racimolare del denaro e, finalmente, un giorno, in 90 ci imbarcammo su di una vecchia e sgangherata barcona ma, intercettati dalla guardia costiera, fummo fermati e internati in un campo gestito dall’Onu. Qui feci domanda per ottenere accoglienza in Canada. Ma l’intervento Usa in Afghanistan con quella che sembrava una grave sconfitta dei talebani, convinse l’Onu a rimpatriare tutti noi afgani dopo una bella festa e con fiori, auguri e… 3000 dollari a testa.
Verso l’Europa
Una volta atterrato a Kabul ecco l’idea: andare in Europa, qualsiasi paese andava bene. Con tre amici iniziai il viaggio, Iran e poi via, verso la Turchia. Pagammo 400 dollari a testa un accompagnatore che ci guidò al confine turco. Camminavamo di notte, senza alcuna luce, se ci avessero visto ci avrebbero sparato. Eravamo sulle montagne, zaino in spalla, pane, acqua, frutta secca per alimentarci. A un certo punto il passatore si fermò, ci indicò una montagna al di là della quale – disse – avremmo trovato la strada, là c’era la Turchia. Se ne andò. Camminammo per ore, scavalcammo diverse montagne, finimmo nella neve alta fino ai fianchi. Rimanemmo in questa situazione 5-6 giorni. Fame, freddo, paura, sfinimento… ci eravamo persi. Decidemmo di tornare indietro. Scendendo non c’era più neve, ma non avevamo più acqua, così bevemmo quella sporca e fangosa che la neve aveva formato sciogliendosi a terra. Ci procurò vari disturbi. Finalmente avvistammo una piccola casa, ci abitava un curdo con la madre. Ci dettero pane e latte e il mattino dopo, per 200 dollari, l’uomo ci accompagnò ad una fermata di autobus, si mise d’accordo con l’autista che ci fece sistemare nel vano bagagli. Ogni volta che qualcuno saliva o scendeva, era lui che sistemava le cose nel bagagliaio. Il viaggio durò 25 ore, per fortuna il pastore curdo ci aveva rifornito di pane, acqua e di una bottiglia per la pipì.
In cerca d’asilo
Ad Ankara ci rivolgemmo all’ambasciata canadese per chiedere asilo. Passati male, 4 mesi e, capito che avevamo poche speranze, raggiungemmo Istanbul dove ci sono 3-4 hotel di afgani. I padroni sanno tantissime informazioni e, se paghi, te le danno. Per 50 dollari uno di loro ci insegnò come arrivare in Europa. Le sue parole furono “O ce la fate o morite”. Dovevamo raggiungere Cesma, una località turistica sul Mar Egeo, mischiarci fra i turisti e, col buio, gettarci in acqua e via, verso la Grecia. Ci fornì di uno pneumatico a testa (20 euro) e di una pompa (15 euro), il tutto dentro una valigia. Alle 21 e 40 eravamo sulla riva del mare, i vestiti raccolti in sacchetti impermeabili, disposti a bandoliera, le gomme gonfiate usate come salvagente e i nostri fianchi collegati fra loro da una corda. Ascoltata un’emozionante canzone afgana, ci buttammo. Era una bella notte di primavera. Quando le luci della costa sparirono, ci sentimmo perduti. Faticavamo a causa delle correnti e ci tormentavano i pesci attaccati alla nostra carne. Furono ore di paura, pregavamo. Alle 5, nella foschia del primo mattino, ecco la costa e la bandiera greca. Ce l’avevamo fatta! Eravamo nell’isola di Mitilene. Abbiamo festeggiato con una scatola di tonno e di lì a poco eravamo sul traghetto per Atene. Ad Alexandra Park l’incontro con altri afgani, qualche giorno di riposo, gioco, contentezza: per mangiare nessun problema, le varie chiese aiutano.
L’ennesimo camion
Quando ci presentammo in questura per chiedere asilo, ci presero le impronte. Trovammo lavoro ad Argos, nei campi, 15 euro al giorno per 8 ore di lavoro. Rimediati così 6-700 euro, ci spostammo a Patrasso. In questo porto s’imbarcano molti camion per l’Europa, l’idea era di infilarcisi sotto, ma è molto difficile perché c’è tanta polizia che controlla. Io ci provai varie volte, ma ogni volta venivo scoperto e preso a manganellate così violente che, per molti giorni, fui tutto pesto e quasi immobile. La quarta volta mi toccarono quattro mesi di prigione. Andò molto peggio al mio amico che si nascose sotto un camion e in una zona controllata dalla malavita curda: morì accoltellato. Altri tentativi e, finalmente, l’occasione buona. Aggrappato per 36 ore sotto un camion diretto in Olanda, senza mangiare né bere, respirando gas, immerso nella puzza, sostenuto però dalla speranza di farcela, ecco che arrivo a Venezia, poi in treno raggiungo Roma. Travolto, dalla stanchezza decido di dormire per strada, su di un cartone, come vedo fare altri. Il risveglio è bellissimo: accanto a me qualcuno ha lasciato una scatola con dentro latte, biscotti e un biglietto nuovo nuovo da 100 euro! Questa cosa non la dimenticherò mai…
Sogno e realtà
In una piazza incontro altri afgani che mi convincono ad andarmene: in Italia c’è poco lavoro, impossibile avere i documenti, sei giovane, vai… Mi rimetto in viaggio, a piedi, in treno, su bus, traghetti, sempre senza biglietto, nascosto nella toilette o sotto i sedili. Arrivo in Finlandia, mi presento alle autorità che mi sistemano in un campo dove ci sono altri 25 stranieri. Qualche giorno dopo si presenta una coppia, non tanto giovane, che si offre di tenermi con sé. Ed io vado a casa loro, mi iscrivono alla scuola di lingua finlandese, mi trovo bene. Preparano i documenti ed ecco che salta fuori quel che mi è capitato in Grecia e mi ci rimandano! Ma io provo e riprovo, ormai sono un esperto di viaggi clandestini.
Approdo a Rimini
Un giorno riesco a nascondermi fra i materassi dentro un camion tedesco, mi par di soffocare. All’arrivo ad Ancona, batto contro la cabina e comunico all’autista che siamo in 15 lì dentro. Avevo paura che, dicendo la verità, mi avrebbe ammazzato. Lui si ferma sulla statale, poco prima di Rimini, e chiama la polizia. Quando esco e sono solo, fa per saltarmi addosso. Porgo i polsi al poliziotto per essere ammanettato ma lui no, non vuole, mi accompagna in questura e, dopo l’interrogatorio, in un hotel giallo. Per fortuna poi, divento ospite della Caritas dove mi aiutano a fare i documenti. Adesso sono qui da anni, in regola, lavoro nell’edilizia. È il lavoro che avevo sognato? Non so, non ho mai avuto né tempo né modo per i sogni. Però un progetto ce l’ho: far venire a Rimini la mia promessa sposa, conosciuta quando lavoravo in Iran. Deve venire in questo paese che ha conquistato il mio cuore.
Testimonianza raccolta
da Luciana Ricci