Un’immagine intensa e vibrante, quella che ci è stata appena pennellata dall’evangelista Giovanni: l’immagine della vite e dei tralci. Prima di ripercorrerne più in dettaglio i vari tratti, è forse opportuno cerchiare la formula con cui Gesù la introduce: “Io-Sono”. E’ la settima ed ultima volta che nel quarto vangelo Gesù vi fa ricorso. Fino ad ora quella formula così solenne gli era servita per autoidentificarsi con il pane della vita, la luce del mondo, il buon pastore ecc. Ora sembra che il Maestro voglia come superare se stesso: ha bisogno di dire che il legame tra lui e noi è molto più intimo e inscindibile di quello che vincola un pastore alle sue pecorelle. E allora ecco la metafora ardita, che lui stesso si incarica di decodificare: il Padre è l’agricoltore, il Figlio è il ceppo della vite e i discepoli i suoi tralci. Così, il nucleo incandescente del messaggio traspare in filigrana, e risulta facilmente leggibile: i discepoli, sia singolarmente che comunitariamente, devono la propria vitalità e la più certa e rigogliosa fecondità della loro opera soltanto al radicamento pieno e indissolubile in Gesù. Di qui l’imperativo struggente del Maestro: «rimanete in me». Di qui anche quel suo indicativo perentorio, che fissa una verità decisiva, non negoziabile: «senza di me non potete far nulla». Stiano però sereni i discepoli: la loro fertilità è ampiamente assicurata, ma a due condizioni: rimanere in Gesù, amarsi gli uni gli altri.
Fedeltà, fraternità, fecondità: questi i tratti che contrassegnano il volto del discepolo secondo Giovanni. Non sono come tre segmenti staccati e artificiosamente giustapposti. Il loro legame strutturale si potrebbe esplicitare così: la fecondità dei discepoli è direttamente proporzionale alla fedeltà che li lega al Maestro e alla fraternità creata dall’amore reciproco.
Tentiamo ora di declinare questa fisionomia di base del cristiano, elevandola con l’esponente del sacramento alla “potenza” di una vita sacerdotale bella e possibile.
1. Fedeltà. Abbiamo ascoltato: “Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto”. Rimanere nel lessico del quarto vangelo non è verbo secondario o facoltativo, è verbo “reggente”: è il verbo-base che regge e sorregge l’intera struttura del discepolo. Qui nel nostro brano ricorre ben sette volte, ma già da quel giorno all’ora decima – quando Andrea e Giovanni lo incontrarono lungo le rive del Giordano (“e rimasero con lui tutto quel giorno”) – rimanere è il verbo privilegiato che racconta e difende il nesso vitale che si è instaurato tra Gesù e i suoi. Tutto dipende, ormai e per sempre, da quella reciproca, intima appartenenza: Gesù deve rimanere nei discepoli, i discepoli devono rimanere in Gesù, e tutti insieme devono rimanere nell’abbraccio del Padre.
Tradotto nella lingua dell’apostolo delle genti, il rimanere giovanneo si può rendere con il paolino essere fedeli: “Ciò che si richiede agli amministratori (dei misteri di Dio) è che ognuno risulti fedele” (1Cor 4,2). La fedeltà del discepolo e ancor più del ministro non è testardaggine ostinata né accanita coerenza a nobili principi o resistenza stoica di fronte ad avversità, prove e incombenti difficoltà. E’ piuttosto adesione amorevole e sofferta al disegno misterioso del Padre. A misurare il peso specifico dell’apostolo non è una straripante genialità, una creatività vulcanica o un attivismo incontenibile, ma la grata, serena, instancabile perseveranza del discepolo.
In questa luce assume il suo giusto rilievo anche quell’operazione chirurgica così dolorosa per il tralcio che porta frutto, la potatura. Operazione dolorosa, ma efficace e salutare: non è mirata a mortificare, ma a fortificare il tralcio e a renderlo più fecondo: «perché porti più frutto».
Caro Stefano, alla sera della vita non ti verrà chiesto se hai dato spettacolo gettandoti dal pinnacolo del tempio, se hai trasformato prodigiosamente le pietre in oro o almeno in pane, o se hai conquistato audiences vertiginose. Ti verrà chiesto piuttosto se hai declinato la fedeltà – l’austera ma generosa primogenita di molte virtù – nei tratti feriali e spesso oscuri delle sue sorelle minori: la coerenza con la parola data, la resistenza nella prova, la pazienza nelle avversità, la costanza nel servizio quotidiano, una infaticabile generosità, un’amabilità serena e gratuita. Nelle lettere pastorali san Paolo cita più volte l’elenco di queste virtù, raccomandandone la verifica in coloro che devono essere scelti per il ministero.
2. Fraternità. «Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi»: è il “suo” comandamento nuovo. L’amore fraterno è la prova più chiara e inconfutabile che un pastore possa addurre a favore della credibilità del proprio ministero. Il tralcio non può pretendere l’esclusiva sulla linfa che riceve dalla vite. Ciò che gli è richiesto non è di essere l’unico, il più bello o il più vigoroso, ma di essere fedele: attaccato al ceppo, insieme a tutti gli altri tralci. Fuor di metafora: la fraternità tra i ministri del vangelo non è un sentimento vago e vaporoso: è una “intima fraternità sacramentale” (P0 8). La conseguenza è lampante: «chi non ha esperienza dell’amore fraterno, non dovrebbe osare di annunciare il vangelo» (s. Gregorio M., Omelie 17,1-3). O, come diceva un grande maestro spirituale (Lallemant): chi non ha la stoffa del contemplativo, sarebbe bene che si dedicasse all’apostolato attivo solo per un breve tempo e per qualche piccolo esperimento: altrimenti farebbe danno a sé e agli altri.
Caro Stefano, lo sai bene perché lo hai già imparato, ma non dimenticarlo mai: il primo dono da offrire alle persone o alla comunità che dovrai servire non sarà un’attività, per quanto generosa e infaticabile, e meno ancora un attivismo frenetico e scalpitante. Ma sarà una fraternità sacerdotale vissuta concretamente, attentamente custodita, coltivata con finezza e pazienza, difesa da ogni contaminazione, depurata da ogni chiusura o morboso ripiegamento. Non dimenticarlo mai: è nella trama di limpide e solide amicizie fraterne con gli altri presbiteri che troverai un aiuto prezioso ad aprirti ai problemi della tua comunità, a superare ogni tentazione di vittimismo acido e lagnoso, ad affinare la tua capacità di relazione con tutti – compresi quelli che ti affliggono – ad essere sempre positivo, forte e fiducioso, anche quando sopraggiunge la stagione delicata delle inevitabili, ma provvidenziali “potature”.
3. Fecondità. Non aver paura: la tua vita è stata già benedetta, e tu porterai molto frutto. Caro Stefano, per amore del tuo Signore che hai scelto come unico tesoro della tua vita, hai liberamente rinunciato a formarti una famiglia. Ma tu non sei un rinunciatario. Tu non puoi e non vuoi rinunciare al grande sogno con cui il tuo dolce Signore ti ha sedotto. Quando un giorno busserai alla sua porta, avrai fatto tanta strada, avrai ceste di dolore, ma avrai anche tanti grappoli d’amore. Non dubitare: il sogno si compirà, se non dirai mai quelle parole raggelanti che si leggono in bocca al protagonista di un romanzo molto in voga negli anni passati: «Una missione è una cosa stupida. Io non ho nessuna missione. Nessun uomo ha una missione. Ed è un sollievo enorme scoprire di essere liberi». Come se la missione fosse una catena soffocante…Tu quelle brutte parole non le dirai mai, perché sai bene che esse non dicono l’«insostenibile leggerezza dell’essere»; esprimono solo – quando si pongono quelle cattive premesse – l’immancabile, penosissimo vuoto del nulla.
Non aver paura, Stefano: il sogno si avvererà, se e perché ogni mattina rinnoverai la tua scelta di non puntare lungo i tuoi giorni a produrre effetti speciali, e ogni sera potrai dire con il “curato di campagna”: «O dolce miracolo delle nostre mani vuote! o meraviglia che si possa così donare ciò che per se stessi non si possiede».
Il Signore Gesù ci ripete stasera con tono accorato: «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena. E nessuno potrà togliervi la vostra gioia”.
Caro Stefano, non dimenticare mai che questa tua ordinazione avviene nell’anno paolino, a ridosso della Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni, ispirata quest’anno dal versetto di s. Paolo: “Io so a chi ho dato la mia fiducia”.
Sì, tu sai bene a chi hai dato la tua fiducia. Rinnova ogni giorno nella celebrazione eucaristica il patto d’amore con l’altissimo, onnipotente e buon Signore, e verrai da lui ricambiato con il dono divino della perfetta letizia e di una gioia fresca, zampillante, come una fonte alla quale molti potranno dissetarsi.
E nessuno – niente e nessuno – potrà mai toglierti la tua gioia.
Il Vescovo, Mons. Francesco Lambiasi