“Maestro dove abiti? Venite e vedrete” (Gv.1,39) Il volto del Figlio e la profondità del suo mistero. È il titolo della riflessione, svoltasi lunedì 16 marzo, nell’ambito dell’itinerario quaresimale iniziato nella Diocesi di Rimini proposto sulla domanda “Ma voi, chi dite che io sia?” Contemplare il Suo Volto per mostrarlo a tutti.
È il secondo appuntamento dei cinque incontri settimanali, presso la chiesa di Sant’Agostino nel centro storico di Rimini, indirizzati all’unità sostanziale della persona di Cristo vista secondo le differenti prospettive biblica, teologica, storico-filosofica, spirituale ed ecclesiale.
È il teologo monsignor Piero Coda a parlare di Gesù di Nazaret e lo fa guardando alla fonte, cioè riprendendo tra le mani il Vangelo di Marco che la liturgia della Parola ci offre quest’anno.
“Non è un libro da leggere per impararvi qualcosa. È un invito a iniziare insieme un cammino.
La scena inaugurale è sulle rive del Giordano, dove Giovanni, l’ultimo dei profeti, invita Israele a un gesto di penitenza che rinnovi l’attesa della venuta, ormai imminente, di colui che è inviato da Dio. Ciò che viene descritto è un evento, un incontro imprevisto. E avviene che lì, quando esce dalle acque, Gesù contempla i cieli squarciati e lo Spirito come colomba discendere su di lui, mentre ode una voce dai cieli: “Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento” (Mc 1,11).
Gesù è il Figlio. Ecco la bella notizia! È tutto qui il contenuto del «suo» Vangelo. Lo sottolinea Marco, così titolando il suo scritto: «Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio».
Cogliere che Gesù è il Figlio di Dio non vuol dire ricacciarlo subito su in cielo, in un mistero per noi inaccessibile e distante dalla vita. Riconoscere che Gesù è il Figlio significa percepire che, con Gesù, in Gesù, si inaugura nella storia dell’uomo l’età del Figlio.
Gesù è il Figlio, perché Dio è l’Abbà, il Padre. Nel battesimo di Gesù è racchiuso il mistero grande del nostro battesimo, l’inizio del nostro discepolato, la grazia di diventare, per lui, figli nel Figlio.
Dopo il battesimo al Giordano e il soggiorno nel deserto, subito inizia il cammino di Gesù, l’avventura cui l’Abbà lo chiama. È l’avventura di annunciare, comunicare, testimoniare, essere la bella notizia: Dio è Abbà, io, tu, noi siamo figli!
Aver fede non significa indossare una divisa, quella cristiana, invece di un’altra, né aderire con la testa a una serie di dottrine. Significa incontrare Gesù”.
L’incontro con Gesù ci libera dalla “paralisi” del peccato.
“All’inizio del capitolo secondo c’è un episodio che riassume il senso di ciò che Gesù sta compiendo. Ne è protagonista un paralitico. Quattro persone lo conducono da Gesù, che si trova in casa di Simon Pietro, a Cafarnao. C’è in loro l’intuizione e la fiducia – che Gesù riconosce per quel che sono: fede – che il Nazareno può fare qualcosa di risolutivo per quel loro amico disteso su quel lettuccio. È come se, agli occhi di Gesù, quella paralisi si mostrasse simbolo di qualcos’altro, infinitamente più profondo e grave. Anche il cuore dell’uomo può trasformarsi da cuore di carne, in cui vibra il palpito dell’amore, a cuore di pietra, ripiegato e rinchiuso su se stesso. È il peccato.
Non questa o quell’altra infrazione della legge morale. No, il peccato come chiusura del cuore al Padre e ai fratelli. Il peccato come incapacità di riconoscersi figlio.
La bella notizia di Gesù è che lui, nel nome dell’Abbà, può liberare l’uomo dalla paralisi del peccato. Non si tratta di un gesto magico, di una cancellazione a buon mercato delle colpe, di un colpo di spugna. Liberare dal peccato significa, per Gesù, dire all’uomo, a chiunque, in qualunque situazione si trovi: Dio ti ama! Dio vuol mostrare il suo volto di Abbà anche a te! Apriti al suo amore! La vittoria sul peccato va di pari passo con quella sulla malattia. E viceversa. L’avvento del regno di Dio, proclamato e attuato da Gesù, tocca l’uomo tutto intero, secondo il disegno originario e definitivo del Padre”.
Gesù, sin dall’inizio, non è solo e ci chiede di partecipare alla sua missione.
“Marco descrive come suo primo gesto la chiamata di Simone e di Andrea, di Giacomo e di Giovanni sulle rive del mare di Galilea.
Stare con lui, innanzitutto. Per imparare a pregare, a pensare, a giudicare, a servire, a credere, ad amare, a sperare, a soffrire, a parlare, a morire come lui. Gesù, è una cosa sola con l’Abbà. Altro non v’è, se non si vuole trasformare la comunità cristiana in un semplice gruppo sociologico, in un club, in una organizzazione erogatrice di servizi religiosi, in una grandezza mondana. Ma lo stare con Gesù ha anche un altro obiettivo. .
La comunità dei Dodici è il luogo a partire dal quale l’annuncio diventa possibile e credibile. Perché la comunità ha al suo cuore Gesù e per questo può annunciare, testimoniandola, la vita nuova che si vive insieme con lui: «Da questo conosceranno che siete miei discepoli, dall’amore che avrete gli uni per gli altri» (Gv 13,35).
Altrimenti si vendono parole, parole, parole. Non la Parola, la bella notizia: che è lui vivente in mezzo a noi.
Solo chi è stato toccato da Gesù e ha convissuto e convive con lui, può contagiare con la sua vita, può dire in verità: «Vieni e vedi quanto è bello che i fratelli stiano insieme».
L’efficacia dell’annuncio non è solo nello stare con Gesù, ma nel vivere in povertà.
“Essa è fiducia piena e serena nell’Abbà: non nelle proprie forze, capacità, ricchezze o nei poteri di questo mondo. La lieta notizia, sullo sfondo nudo della povertà, terso e luminoso come un mattino di primavera, incanta di nuovo, trasforma, trascina, come fosse la prima volta”.
È nello stesso dramma della morte che Gesù manifesta il suo essere Figlio di Dio.
“Marco non attenua i toni aspri e crudi dell’evento. Ma subito annota: «Il centurione (…) vedendo che così era spirato, disse: Veramente quest’uomo era figlio di Dio» (Mc 15,39). Paradossalmente, è morendo così che Gesù rivela di essere il Figlio di Dio. Perché spinge la sua fedeltà all’Abbà e la sua solidarietà con gli uomini sino alla fine, sino a essere rigettato come pietra scartata dai costruttori. Sino a vedere umanamente fallito l’annuncio della bella notizia. Per «credere» in Gesù, i sommi sacerdoti e gli scribi chiedono un gesto di potenza: che egli scenda dalla croce. Gesù non dà questo segno. Resta sulla croce. Impotente e solo. Anche il Padre non interviene. Non lo può e non lo vuole fare. Perché non è un padre paternalistico e protettivo: è Abbà, Padre vero che, partecipando in modo indicibile al dolore del Figlio, vuole che egli esprima la sua libertà, il suo amore, la sua fede – sino in fondo. Solo così Gesù si rivela pienamente per chi egli è: il Figlio.
Si arriva così alla Pasqua: il Crocifisso, l’Abbandonato è risorto.
“Ecco la bella notizia che ora può risuonare senza ambiguità, in tutta la sua straordinaria forza e novità. Chi è che l’Abbà ha fatto risorgere, riconoscendolo davanti agli occhi di tutti, e per sempre, come il Figlio suo prediletto? È lui, Gesù: crocifisso e abbandonato. Figlio di Dio è colui che, come Gesù, si impegna a spendere la sua vita, costi quel che costi, per testimoniare che Dio è Abbà e noi siamo tutti fratelli.
Anche il discepolo, come Gesù, sarà tentato, insidiato, gettato nell’oscurità e nella prova. Dovrà credere contro ogni umana speranza, portando la sua croce nella quotidianità delle relazioni che vive nell’ambito della famiglia, della società, del mondo del lavoro e della città. Ma egli saprà credere e amare e lottare perché la bella notizia nessuno, ormai, la potrà più mettere a tacere nel suo cuore e nella sua vita. Né il rombo dei cannoni, né il frastuono delle ideologie, né la vanità delle illusioni”.
Francesco Perez