La Barella corre lungo i corridoi dell’ospedale. Sopra, distesa, una donna che respira come un mantice, mentre l’infermiera la spinge verso la sala parto. Là, appena arrivata, la futura mamma viene posizionata sopra un lettino con le gambe ben divaricate. Subito viene accesa una lunga sfilza di apparecchi che fanno “ping”, “blimp” o qualche altro suono curioso. Si collegano tutti i sensori, poi ci si siede e si aspetta fino a che il nascituro si decide a saltare fuori tra le braccia dell’ostetrica o del dottore di turno. Infine si taglia il cordone, si mette la targhettina, si pesa il pargolo e tutto è finito. La madre si riposa, il padre manda sms a parenti e amici – spesso già in festa nella stanza attigua – e tutto torna alla normalità.
Questa, più o meno, è una moderna scena di parto senza complicazioni. Un evento che può durare poche ore, se la madre è fortunata, o anche una lunga giornata di spinte e fatica. Ma un tempo le cose andavano diversamente. Fino a pochi decenni fa il parto era un “affare da donne”. Era una questione alla quale gli uomini non erano ammessi. E, soprattutto, era una cosa che si faceva in casa, nella camera da letto dei genitori. Oggi no, oggi si partorisce all’ospedale, in stanze attrezzate. O almeno fino ad ora, perché da alcuni anni un numero crescente di donne ha deciso di riprendere il possesso della situazione e partorire nell’intimità della propria casa.
E non è una tendenza di qualche amante delle vecchie tradizioni di una volta o di qualche alternativo fanatico naturalista. Il parto a domicilio sta diventando sempre di più una realtà “normale”, tanto da essere regolamentata, per quanto riguarda l’Emilia Romagna, da una legge regionale, la n. 26 del 1988, che titola: Norme per il parto nelle strutture ospedaliere, nelle case di maternità e a domicilio. Dopo trent’anni di ospedalizzazione massificata, qualcuno ha pensato che il parto si poteva ancora farlo come una volta. A rinforzare questo pensiero si è aggiunta anche una nota dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che precisa che il parto non è una malattia. Sembrerà banale. Ma se non è una malattia, perché si va all’ospedale? Prima di tutto perché c’è sempre la paura che possano sorgere complicazioni, poi perché ormai si ha la tendenza ad andare all’ospedale per qualsiasi cosa, e un po’ perché in pochi sono a conoscenza di questa alternativa. Il filosofo Ivan Ilich sosteneva che la sanità è pericolosa perché tende a disabituare il corpo a guarire da solo. Forse questa è un’affermazione un po’ forte (basterebbe pensare a quanto si sia allungata la vita media negli ultimi anni), ma è di sicuro una provocazione calzante: non è che andiamo all’ospedale un po’ troppo? Dall’altra parte un parto in casa offre un ambiente meno stressante per la madre e la possibilità di vivere il momento della nascita in modo più intimo e dolce.
Il parto in casa
Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Anche per partorire in casa si deve seguire un iter preciso che certifichi l’assoluta sicurezza della situazione. In particolare è necessario che il parto sia fisiologico, che le tre ecografie non abbiano riscontrato problemi di sorta, che l’ospedale non sia a più di 30 minuti di macchina dal luogo del parto, che siano presenti due ostetriche e infine, nel momento del parto, che venga allertato il 118. Se tutti questi parametri sono rispettati – come richiesto anche dall’Associazione Nazionale Ostetriche parto a domicilio e casa maternità – allora si può inoltrare domanda all’Ausl per il nulla osta per il parto in casa e per il rimborso spese. Il costo medio di un parto in casa è attorno ai 2mila euro, almeno per una situazione ordinaria. La Provincia ne rimborsa sino a 1060. Quindi, con una semplice operazione matematica, ricaviamo che partorire in casa costa alla famiglia poco più di mille euro. Ma il parto in ospedale, di contro, costa alla collettività dai 2 ai 3mila euro, oltre all’occupazione del posto-letto. Quindi anche per le strutture sanitarie il parto in casa è preferibile.
Ce lo conferma il dottor Ezio Bergamini, Segretario Regionale dell’Emilia Romagna dell’Aogoi, Associazione Ostetrici Ginecologi ospedalieri italiani. “Non esistono problematiche contrarie per l’Aogoi, che anzi è favorevole al parto in casa qualora sussistano le condizioni di sicurezza”. Non a caso, a Modena sta nascendo una casa da parto nel policlinico, per creare un ambiente più consono al momento del parto, che avviene sempre con due ostetriche presenti, ma a un corridoio di distanza dall’ospedale.
Dello stesso parere il dottor Nunzio Giulini, di Cattolica, vice segretario nazionale dell’Aogoi. “La nostra associazione è favorevole al parto in casa. È imprescindibile, però, che siano rispettate tutte le norme di sicurezza e che il parto sia a basso rischio”.
A questo proposito, il dottor Giulini ci informa che è in via di realizzazione un servizio, in Romagna, dedicato al parto a domicilio, di cui ancora, però, non si conoscono precisamente i contorni.
Eppure, nonostante queste attenzioni delle Ausl e il “placet” dell’Aogoi, il parto in casa ancora non decolla. E stiamo parlando di una regione, l’Emilia Romagna, che è la prima in Italia in questa “tendenza”, con una percentuale dello 0.85% di bambini nati in casa – rispetto al totale – su una media nazionale di 0.2% (faro d’Europa è l’Olanda con il 32% di parti in casa).
Il problema è che le paure, i preconcetti e i problemi da superare spesso sono tanti.
Il parere dell’ostetrica
Paola Carlini è un’ostetrica libera professionista. Ha lavorato presso diverse Ausl della regione e in particolare ha passato 18 anni a Rimini, fino al 2006. Oggi aiuta le donne a partorire in casa.
“Il problema – ci racconta – è che c’è poca informazione al riguardo. Solitamente le donne che decidono di partorire in casa hanno già un’idea molto precisa su quello che vogliono fare. È difficile che ottengano informazioni al riguardo nelle strutture sanitarie, al consultorio o dal dottore di base. Oppure hanno avuto una esperienza traumatica all’ospedale e non vogliono ripeterla”.
C’è chi decide di partorire in casa per una scelta di radici, di tradizioni e di territorio, per far nascere il proprio figlio non in un ospedale di un altro comune ma dove ha sede la propria famiglia. C’è poi chi ha paura del dolore e preferisce l’epidurale. Quale che sia la scelta, l’importante è che sia libera e ben motivata in ogni caso, sia che la puerpera decida di vivere intensamente e profondamente il parto nell’intimità e nella penombra della sua casa, circondata solo dai suoi cari, sia che invece preferisca allontanarsi dall’indicazione biblica del “partorirai con dolore” all’interno di una camera attrezzata di un ospedale sotto l’indiscreta luce della lampada. La realtà romagnola è ancora piccola se confrontata con quella emiliana che vanta già una casa maternità a Bologna.
“Ci sarebbero le risorse per dare vita – precisa Paola Carlini – ad una struttura più a misura d’uomo. Ma finora tutte le nostre richieste sono cadute nel vuoto”.
Ma nel contempo Rimini è la prima in Romagna con 27 parti a domicilio nel 2008 su un totale di 3mila nascite, contro i 7 parti per Ausl di Ravenna, Forlì e Cesena.
La situazione è un po’ paradossale. Si è portati a pensare che ci siano due forti correnti di pensiero, quella ortodossa-istituzionale contraria al parto in casa, e il movimento a favore. Invece, sulla carta, anche le strutture sanitarie sono a favore (qualora si presenti senza rischi, questo è bene ribadirlo), eppure la situazione sembra inamovibile. Perché? Più che di vero e proprio ostracismo sembra piuttosto ci sia una certa reticenza da parte delle strutture e delle partorienti.
“Come sempre succede – spiega Marta Campiotti, presidente dell’Ass. Naz. Ostetriche parto a domicilio – le novità faticano ad emergere, ed è più facile continuare con le vecchie abitudini. Dall’altra parte abbiamo ormai un abito mentale che ci spinge a delegare quello che ci succede alle strutture competenti, senza pensare di poterlo affrontare in prima persona”.
Non è un inno all’anarchia, né una tendenza a tornare indietro. Oltre ad attenersi alle linee guida, le ostetriche moderne portano sempre con sé tutta l’attrezzatura per affrontare le emergenze.
I passi da fare
Ma la burocrazia, al contrario, ha bisogno di essere messa in moto. Cosa deve fare chi intraprende la scelta del parto in casa? Dopo la terza ecografia, all’incirca alla 32ª settimana di gravidanza (per chi avesse un po’ di difficoltà a calcolare il tempo in settimane, siamo attorno alla metà del settimo mese), se il parere dell’ostetrica (in questo caso dev’essere un’ostetrica libero professionista, e non un’ostetrica dell’ospedale), che ha controllato tutte le analisi, le ecografie e l’anamnesi familiare, è favorevole, allora si può inoltrare richiesta all’Ausl, attraverso un modulo disponibile presso l’Azienda. Se il 118 valuta la domanda positivamente rilascia un certificato di parto a basso rischio. Esistono anche forme “mediate”, come il travaglio in casa, il cosiddetto accompagnamento. In questo modo la partoriente va all’ospedale solo per le ultime spinte, mentre tutto il resto si svolge in casa.
Come avviene e le paure
Ma cosa succede concretamente durante un parto in casa? Nei film l’ostetrica arriva di corsa e chiede asciugamani e acqua calda.
“Beh, quasi – spiega Carlini – l’acqua calda è molto importante. In generale è importante che tutto l’ambiente sia caldo, visto che i neonati sono immersi, fino a pochi secondi prima, in un liquido a 37 gradi! Per il resto nessuno arriva di corsa. Anzi, tutto il contrario. Si cerca di creare un ambiente tranquillo e rilassato, silenzioso e in penombra e il resto, poi, avviene secondo natura”.
La paura più grossa, naturalmente, è che qualcosa possa andare storto.
“È impossibile poter prevedere ciò che succederà, a casa come in ospedale – spiega Rosalba Moni, ostetrica di Novafeltria che lavora insieme a Rita D’Altri al centro “Le nove lune” di San Marino – al primo segnale di incertezza chiamiamo il 118 e ci trasferiamo al nosocomio. Partorire in casa non è una questione di coraggio, ma una scelta. Forse bisognerebbe avere un po’ di timore in ospedale, dove ormai il 50% dei parti viene fatto con il cesareo”.
Stefano Rossini