Ha più di quarant’anni, è per lo più italiana e coniugata: è questo, nella maggioranza dei casi, il profilo della donna che ha subìto violenza secondo il ritratto fornito dalle psicologhe della Casa delle donne di Rimini. Alla struttura di piazza Cavour, in meno di dieci mesi (dal 22 gennaio 2007 al 20 novembre 2008) si sono rivolte oltre 1200 persone secondo i dati illustrati dall’assessore comunale alle Pari Opportunità, Karen Visani, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza alle donne del 25 novembre scorso.
Il profilo della sofferenza
Entrando nel dettaglio, su un totale di 1207 utenti, oltre 500 dei quali provenienti da Rimini, 239 hanno richiesto un sostegno psicologico, 111 hanno manifestato la necessità di maggiori pari opportunità e servizi territoriali rivolti alle donne e 58 hanno denunciato una violenza allo sportello Dafne 19, in particolare, i casi accolti nel 2008 da questo importante servizio. Donne vittime di violenze psicologiche, fisiche, sessuali, economiche e di stalking (letteralmente, perseguitare: una serie di atteggiamenti di persecuzione e minaccia) soprattutto da parte dell’ex marito o del convivente. “Si tratta – spiega la psicologa Alice Pari, operatrice della Casa delle donne – soprattutto di donne riminesi, dato che le straniere preferiscono rivolgersi agli sportelli sociali. Ci occupiamo di donne soprattutto al di sopra dei 40 anni, con figli maggiorenni o senza figli, che hanno alle spalle storie di violenza anche decennali e che decidono di uscirne. Il nostro lavoro è quello di offrire loro un sostegno e una opportunità per uscirne e ricostruirsi una vita”.
Donne che rompono il silenzio
Non sempre, tuttavia, ci si riesce a munire del coraggio necessario per denunciare quanto subìto – soprattutto quando il “nemico” è dentro casa, cioè nella maggioranza dei casi – e talvolta quella di uscire allo scoperto diventa una scelta maturata dopo un lungo periodo di sofferenze psicologiche e fisiche, quando la resistenza è ridotta allo stremo. O per la paura di ripercussioni in famiglia o per il terrore di coinvolgere i figli o, semplicemente, per problemi di tipo materiale come la scarsa autonomia economica dal marito o dal convivente: molto spesso si sceglie di sopportare in silenzio aspettando che quella luce in fondo al tunnel prima o poi arrivi.
È un altro importante dato rilevato da chi opera in favore delle donne vittime di violenza. Come l’associazione di volontariato riminese Rompi il silenzio, fondata nel 2005 all’interno della rete nazionale dei Centri antiviolenza, con l’obiettivo di offrire sostegno con l’aiuto di psicologhe, ginecologhe, consulenti legali ponendo al centro sempre il rapporto tra le donne che chiedono aiuto e le volontarie (attualmente sono 14). Se nel 2006 (dati giugno-dicembre) sono state 7 le donne che hanno chiesto aiuto, nel secondo anno il numero è salito a 49, per raggiungere quota 62 nell’arco del 2008. Un’impennata.
L’indagine: oltre i dati
Tra le finalità dell’associazione riminese, spiega la presidente Patrizia Ghetti, c’è non solo quella di cercare e diffondere dati relativi alle donne che subiscono violenza: “nel territorio provinciale il fenomeno, fino a poco tempo fa, era gestito quasi esclusivamente nell’ambito dell’emergenza – afferma la Ghetti riferendosi ai dati delle fonti ufficiali, strutture di pronto soccorso e forze dell’ordine – raramente in un’ottica di genere e di prevenzione”. Per questo è nato il bisogno di indagare, al di là della rilevanza quantitativa del fenomeno, la percezione e conoscenza, diretta o indiretta, che la popolazione femminile ha di questa piaga.
Che opinione hanno le donne di un dramma che le tocca così da vicino e così profondamente, anche quando non ne siano direttamente vittime? Risponde a questa domanda il “Progetto Vincenza”, in memoria di Vincenza Pelosi, prima fondatrice dell’associazione riminese. In 65 ambulatori medici della provincia (scelti casualmente) sono stati raccolti 422 questionari (non somministrati di persone dalle volontarie, ma collocati in appositi contenitori nelle sale di attesa, così da garantire una partecipazione volontaria e anonima). Una curiosità: alle domande hanno risposto anche 31 uomini, esclusi però dalla rilevazione dei dati, trattandosi di indagine esclusivamente al femminile.
Un rischio per tutte
Ma cosa emerge dalla ricerca? Innanzitutto una diffusione del fenomeno abbastanza forte nel territorio. Più della metà delle donne che hanno risposto al test (56%), infatti, riferiscono di essere entrate personalmente e direttamente a contatto con vittime di violenza. Il secondo aspetto importante riguarda l’abbandono di una visione stereotipata del problema (molti ricorderanno la discussione nata qualche anno fa, anche in ambito politico e giudiziario, sul binomio minigonna-violenza): secondo l’82% delle interpellate, tutte le donne, indipendentemente da comportamenti “poco seri”, dall’età o dall’aspetto fisico, sono a rischio. Un segno di come la violenza, specie quella sessuale, abbia poco a che fare con il desiderio, se non come un travestimento di un impulso distruttivo, di aggressione e annientamento della vittima di turno.
L’assenza di una percezione stereotipata sembra essere superata anche rispetto ai fattori che contribuiscono a tenere “ingabbiata” una donna all’interno di una relazione tanto distruttiva: solo il 9,7%, infatti, ha risposto “perché in fondo le va bene così”. Secondo il 18% ciò avviene “per amore”, per il 22,5% “per il valore della famiglia”, per il 23% “per l’incapacità di cavarsela da sole”, per il 56% “per l’assenza di prospettive materiali”, per il 64,7% “per paura” e per il 76,3% “per il desiderio di proteggere i figli”.
Donna chiama… donna
Dall’indagine, a cura di Daniela Lisi e Paola Piana, emerge anche il ritratto di una donna che ha ben chiaro quali siano le cause più comuni e le principali risorse utili per aiutare le vittime a fronteggiare la situazione subìta. Per il 69% delle interpellate, la violenza nasce soprattutto all’interno della relazione in presenza di problemi di tipo psicologico nell’uomo mentre, per quanto riguarda i possibili rimedi, l’88,5% ha risposto che servono per prima cosa forme di sostegno e protezione specifica per le donne che denunciano. In questo senso, risulta particolarmente scarsa la fiducia attribuita all’azione degli avvocati (20%) e delle forze dell’ordine (30%) nell’aiutare una donne ad uscire dal tunnel. Molto più utile, sempre in base ai risultati dell’indagine, l’azione delle associazioni di donne che aiutano altre donne (66,5%). Non a caso, dal 2006, le volontarie di Rompi il silenzio offrono come prima cosa un orecchio che ascolti con attenzione chi ha voglia di raccontare e una spalla per chi senta la necessità di un appoggio. Ma senza alcun pietismo: “La donna – sottolinea la presidente, Patrizia Ghetti – non è vista da noi come una vittima, ma come una donna che sta vivendo un momento particolare”.
Per dare il giusto peso ad un problema senza perdere la speranza. Solo così si può rompere il silenzio…
Alessandra Leardini