La nostra intervista con San Paolo è ad una svolta, dopo aver ripercorso alcuni tratti della sua vita e dei suoi viaggi apostolici abbiamo incominciato a scandagliare l’animo dell’Apostolo attraverso le sue maggiori Lettere. Una volta parlato della Prima Lettera, quella ai Tessalonicesi e delle due Lettere ai Corinzi oggi tocca ad una Lettera molto importante: la Lettera ai Galati. Siamo con Paolo seduti su di un tronco di colonna sulla via Appia sotto secolari pini marittimi. Roma si presenta in questo ottobre con una estate che non vuol morire, anche se i branchi di storni e le rondini che si allontanano nel cielo azzurro ci dicono che ormai l’autunno è alle porte. La luce del sole, radente sull’Appia Antica mette in risalto le rovine delle tombe romane e dei monumenti imperiali che anticamente la rendevano superba e che oggi non ne diminuiscono il fascino.
La sua Lettera ai Galatisi discosta dalle altre. In essa lei ha usato un linguaggio tagliente, a volte sarcastico ed a volte corrucciato. Ma anche molto affettuoso. Insomma è una lettera che quelle comunità le hanno strappato proprio dal cuore…
“Sì, è la lettera che ora, davanti al Signore, pacificato nell’animo, mi porto dentro con più affetto. Forse perché in quell’occasione ho sofferto davvero tanto, forse perché l’ho dovuta scrivere con tanta tristezza, o forse semplicemente perché i passaggi più difficili della nostra vita spesso sono quelli che ricordiamo anche con dolcezza. Scrivendo a queste comunità di una regione dell’Asia Minore (si trattava dunque di una vera e propria lettera circolare), mi impegnai a difendere con forza la purezza del Vangelo che avevo loro predicato e a fare in modo che per nessun motivo il messaggio di Gesù potesse venire deformato. Uscì dalle mie mani un lettera con un tono ardente e a volte polemico. All’inizio, dopo l’indirizzo e i saluti, mancano le tradizionali frasi di ringraziamento a Dio e di lode alle comunità. Non c’era granchè da ringraziare! Dovevo con decisione confutare false idee (1,7-9) che dopo la mia predicazione – avvenuta verso l’anno 52 – si erano diffuse. Anche per questo motivo parlo molto di me, della mia missione e dei miei rapporti con gli Apostoli di Gerusalemme (1,11-2,10). Si trattava di ripresentare i temi più centrali del Vangelo cristiano, e cioè l’assoluta superiorità della fede in Gesù Cristo sull’antica Legge giudaica e sulle opere religiose (2,15-3,29). Avrei poi sviluppato questi argomenti con maggiore ampiezza e con più serenità nella lettera ai Romani. Nella lettera descrivo la condizione dei credenti come situazione di profonda libertà (4-5) e quindi esorto i cristiani della Galazia a vivere secondo lo stile dello Spirito, che non è quello dell’egoismo o quello della bigotteria, si trattasse anche la legge giudaica”.
Ma chi erano questi Galati? E perché avevano travisato il Vangelo?
“I Galati erano tribù di Celti che abitavano tra il Danubio e l’Adriatico. Due tribù di essi riuscirono a passare l’Ellesponto, giunsero in Asia minore e si stanziarono nella regione centrale dell’attuale Turchia. I Galati conservarono a lungo la loro lingua celtica e le loro usanze nazionali. Anche al tempo di san Girolamo nella regione si parlava il celtico. Io passai attraverso la regione galata due volte come è narrato in Atti 16,6 e 18, 23. In questa occasione ho annunciato il vangelo ai Galati in seguito a una malattia che mi ha fermato da loro per qualche tempo (Gal 4,13). Si trattava di credenti che in un primo tempo avevano accolto con favore la predicazione cristiana (5,7), ma poi diedero ascolto anche ad altri predicatori e a un messaggio diverso. Le “nuove” idee diffuse tra loro, a cui mi riferisco nella lettera, erano di tipo giudaico; di conseguenza, abbracciandole, essi non fecero altro che ricondurre la loro fede nei limiti angusti della legge farisaica. E così si lasciarono scioccamente affascinare (3,1-4) da vecchi discorsi, senza comprendere il significato profondo delle Scritture. Dopo aver conosciuto e ricevuto la libertà del Vangelo, stavano ritornando a condizioni di schiavitù, attribuendo importanza a vecchi obblighi che invece non contano nulla (5,6; 6,15). Nella lettera non cito mai l’identità di questi avversari uso solo l’espressione “alcuni” per dimostrare sia il loro numero esiguo, sia la disistima che nutrivo per loro: erano gente che non meritava neppure di essere chiamata per nome. Tuttavia non indirizzai lo scritto a quegli avversari, ma alle comunità della Galazia e gli enunciati che riguardano gli avversari sono espressi in forma indiretta e si trovano proprio nelle mie argomentazioni. Lei mi capisce: era in gioco l’essenza del vangelo; la predicazione degli avversari era una replica al mio annuncio del vangelo, con attacchi non solo al vangelo stesso, ma anche alla mia persona”.
Certo che a leggere la Lettera lei si difese con tutte le sue forze. E soprattutto non cedette di una virgola dal suo modo di presentare il Vangelo.
“Guardi che questo è per me un complimento. Ci sarebbe anche mancato che per fare mediazioni avessi inquinato il Vangelo. Io quel Vangelo, come dico all’inizio della Lettera (1,1-10) l’ho ricevuto da Cristo sia direttamente sia attraverso la Chiesa. Il Vangelo non è mica un ragionamento umano! Forse il mio è un carattere un po’ determinato, ma davvero come avrei potuto stemperare il vangelo di Gesù? Quando scrissi la lettera ero molto sdegnato: non m’importava della mia bella faccia, non dovevo “piacere agli uomini” (1,10), ma a Dio».
In che modo lei presenta i suoi argomenti nella lettera?
“Uno dei temi maggiori della lettera, se non quello centrale, è il rapporto tra la legge e la fede. I discepoli di Cristo provenienti dal paganesimo devono essere sottomessi alle prescrizioni della Legge di Mosé oppure la fede in Cristo è sufficiente per la salvezza, senza le opere della Legge? In altre parole, occorre diventare giudeo per essere cristiano? Occorre, in particolare, farsi circoncidere per entrare con Abramo in alleanza con Dio e nella comunione totale con i discepoli giudei di Gesù? E ancora, in concreto: un giudeo-cristiano può mangiare con un cristiano proveniente dal paganesimo, non circonciso e che non segue le prescrizioni alimentari giudaiche? In che misura dunque giudeo-cristiani e pagano-cristiani sono davvero uniti? Pietro si era già posto il problema riguardo a Cornelio, centurione romano e gli Atti mostrano la resistenza di Pietro e poi la sua conversione (At 10). Più tardi, ad Antiochia (Gal 2,11-14), quando gli si porrà lo stesso problema fui proprio io (come già abbiamo visto nelle nostre interviste) che a viso aperto denunciai questa condotta. Eppure poco tempo prima io e le autorità di Gerusalemme eravamo giunti ad un accordo sulla questione (Gal 2,1-10). Ad esempio Tito, mio compagno cristiano, non era stato costretto alla circoncisione (Gal 2,3). Insomma il problema era appunto stato risolto. Eppure…”.
Questo Paolo così combattivo è per noi anche una sorpresa. Quali furono i suoi argomenti “positivi” per convincere i Galati a tornare al vangelo originario?
«Prima di tutto svegliarli da quello che a me sembrava una specie di abbaglio, un “incantesimo”. Così mi esprimo in 3,1-4: “O stolti Gàlati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso? Questo solo io vorrei sapere da voi: è per le opere della legge che avete ricevuto lo Spirito o per aver creduto alla predicazione?
Siete così privi d’intelligenza che, dopo aver incominciato con lo Spirito, ora volete finire con la carne? Tante esperienze le avete fatte invano? Se almeno fosse invano! Colui che dunque vi concede lo Spirito e opera portenti in mezzo a voi, lo fa grazie alle opere della legge o perché avete creduto alla predicazione?”. Proposi poi l’esempio di Abramo, il primo credente che fu benedetto proprio per la sua fede: in Cristo la benedizione di Abramo è poi passata a tutte le genti.
Qual è dunque in sintesi nella sua lettera la proposta cristiana?
“La fede in Gesù solo ci salva. Lui è il dono definitivo del Padre agli uomini attraverso lo Spirito nella Chiesa. Le opere nelle quali si rispecchia questa fede sono proprio improntate da uno spirito di libertà (5,1). Tale libertà non è un pretesto per “vivere secondo la carne”, ma per aprirsi agli altri nella carità. È sintomatico infatti che le opere della carne siano molteplici “fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio” (Gal 5,19-21). Il frutto dello Spirito invece è sempre lo stesso da qualsiasi parte lo si guardi: esso è “amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé” (Gal 5,21-22). Caro amico contro il frutto dello Spirito non c’è legge od obbligo che tenga.
(10- continua)
a cura di Guido Benzi