Il territorio riminese e la vite. Un matrimonio che può vantare una tradizione millenaria e che affonda le sue radici nel VII secolo a.C., come testimoniato dai reperti delle tombe villanoviane di Verucchio. Da allora la coltura della vite si è fatta cultura, prima con gli Etruschi, poi con i Romani, quando nell’antica Ariminum la produzione del vino ha assunto dimensioni ragguardevoli; e pensare che nello stesso periodo storico, in Toscana, non c’era ancora nessun vino con nome romano, al contrario di Rimini….
Piace ricordarlo a Stefano Romani, agronomo, presidente del Consiglio Interprofessionale della Doc Colli di Rimini e responsabile del settore vitivinicolo della cantina cooperativa riminese Le Rocche Malatestiane, a dispetto di quel pregiudizio, lamentato più volte dai produttori e del quale abbiamo parlato anche nello scorso numero de il Ponte (“Poco Sangiovese, siam riminesi”, n. 33/2008, p. 3), secondo cui la provincia riminese sarebbe un territorio poco vocato alla viticoltura. “Il problema – sottolinea Romani – è che nonostante le radici millenarie, siamo partiti tardi rispetto, ad esempio, alla Toscana, anche come Denominazione di Origine Controllata (la Doc Colli di Rimini è nata nel 1996, ndr.); inoltre non abbiamo ancora sufficientemente sviluppato, ma ci stiamo attivamente lavorando, quelle qualità immateriali (l’immagine, la visibilità, la fama di un territorio e delle sue produzioni tipiche) che concorrono a qualificare il prodotto vino”.
Storia di una Doc
Torniamo a parlare della bevanda preferita da Bacco, questa volta guardando la faccia più preziosa della medaglia, quella Doc. Già, perché i vigneti che nella provincia sono coltivati secondo le rigide regole delle Denominazioni di Origine Controllata si estendono su 2.000 ettari su un totale di 3.162.
Parliamo di Doc perché dei passi notevoli, da quel 1996, sono stati fatti. “La produzione vitivinicola locale, che si era abbastanza indebolita sotto la Doc Romagna – ricorda Romani – si è sviluppata notevolmente con la nascita di una Doc autoctona. Con la denominazione Colli di Rimini si è ampliata la gamma dei vitigni tipici locali e di quelli internazionali: il Cabernet Sauvignon ad esempio consente di ottenere vini rossi molto importanti, il Sangiovese, base del Colli di Rimini Rosso, in uvaggio con altri vitigni rossi di pregio, dà origine ad un vino di grande interesse e gradevolezza. La Rebola e il Biancame, in aggiunta al classico Trebbiano di Romagna che come vitigno non è in grado di dare performance qualitative elevate, danno ottimi vini bianchi”. Ma altri obiettivi Doc sono dietro… la bottiglia. “Stiamo lavorando per avere nella Doc Colli di Rimini anche il Sangiovese, in aggiunta a quello di Romagna”.
L’esigenza di un’offerta tipica, dunque, è viva più che mai e, in controtendenza rispetto ai produttori che lamentano un certo snobbismo verso le etichette locali a vantaggio di quelle forestiere più rinomate, gli esercizi commerciali e i locali pubblici che prediligono i vini autoctoni si stanno sempre più diffondendo. Parola di agronomo: “L’interesse c’è – garantisce Romani – sia da parte dei consumatori che dei produttori; l’introduzione, ad esempio, di un vitigno come la Rebola Doc (nota anche come Pignoletto o Grechetto, ndr.) ha consentito a molte aziende di ricevere premi importanti”.
Vini di ieri e di oggi
Non solo Sangiovese e Trebbiano, dunque. A maggior ragione in un territorio dove il turismo alimenta una forte curiosità e richiesta di tipicità enogastronomiche, la volontà di ampliare l’offerta in tema di rossi e bianchi porta ad affiancare di volta in volta nuove scoperte ai vitigni più o meno consolidati. È qui che si colloca la rinascita dei vitigni autoctoni, altrimenti definiti antichi o minori, come il rosso Verucchiese e la Vernaccina riminese, dei quali avevamo dato un breve assaggio su queste pagine la scorsa settimana. Un rosso e un bianco, due aspetti in comune: la rarità e, al tempo stesso, il legame forte con il territorio. “Si tratta di vitigni – spiega l’agronomo – spesso poco elastici nei confronti dell’ambiente e dell’andamento stagionale, che richiedono, per dare il meglio in vigna, le cure di viticoltori abili e appassionati”. Il premio finale? “Vini originali magari non dalla grandissima diffusione, ma che proprio per questo potranno sottrarsi al rischio di un’inflazione commerciale”.
Innanzitutto il rosso Verucchiese, così chiamato perché limitato all’area dell’omonimo comune della Valmarecchia. In passato era coltivato insieme alle uve Sangiovese, oggi l’intenzione è quella di fare un rosso in purezza, leggero, profumato e con gradazione alcolica non elevata. Ad un bianco di pregio si presta bene invece la Vernaccina riminese, fresco e gradevole – dicono gli esperti – e dal profumo fruttato che rimanda ad una prevalenza di agrumi e frutta esotica. Per entrambi i vini “i primi vigneti dovrebbero potersi realizzare nell’autunno 2009, le prime vinificazioni nel settembre-ottobre 2012 con le prime bottiglie già alla fine del medesimo anno o nei primi mesi del 2013”.
Il merito dei giovani
Il settore vitivinicolo è in fermento e spesso, sottolinea lo stesso presidente della Doc Colli di Rimini, sono gli stessi giovani che, nel portare avanti l’azienda di famiglia, prendono il coraggio di introdurre innovazioni e di cimentarsi nell’intera filiera produttiva, dal vigneto alla bottiglia.
Oggi sono quaranta, in provincia, le aziende che fanno produzione ed imbottigliamento. “È una scelta coraggiosa perché richiede attrezzature, tecnologie e professionalità in più rispetto alle imprese che si fermano alla classica damigiana. L’imbottigliato di qualità richiede uno studio accurato anche nella scelta del packaging (confezionamento, ndr.) e dell’etichetta”.
Alla cantina Rocche Malatestiane (mille ettari di vigneti, una produzione media di 56 mila ettolitri) ne sanno qualcosa, se è vero che, come ci racconta Romani, una delle sue etichette più pregiate come il Sigismondo Super Ariminensis (un Sangiovese Riserva) è arrivato perfino negli Stati Uniti a New York dove è in fase di distribuzione commerciale.
Alessandra Leardini