Stile e passione per noi contempl-attivi
APPENA tornato dalle uscite di agosto trovo con piacere tra la posta questa tua lettera, carissimo ed incontenibile nostro vescovo Francesco. Ancora una volta mi conferma la stima per la tua persona, la gratitudine perché il Signore ti ha inviato a Rimini, la gioia orgogliosa di appartenere a questa chiesa romagnola ed al suo presbiterio. Non cerco captatio benevolentiae con ciò che dico (non ne avverto nessun bisogno perché ne sento tanta quasi troppa per me e per tutti noi preti!) ma una profonda sintonia che ho avvertito sin dai tempi in cui ti conobbi professore alla Pontificia Università Gregoriana, che vedo largamente condivisa con tanti, ed una appassionata e cosciente testimonianza di cristiano. Anche in queste tue ultime parole ritrovo una sim-patia con la nostra chiesa e con noi preti che sgorga non tanto dal tuo temperamento quanto proprio dalla tua fede in Gesù, una fede che trasforma, esalta e ri-umanizza anche il carattere.
La lettera mi fa rendere grazie per diversi motivi.
Anzitutto l’occasione che ti ha portato a scriverci mi rallegra: sapere che il riposo “non ha potuto tenere lontano da voi né mente né cuore” mi fa scorgere un essere amati non solo serviti e mi ricorda che riposare non è “staccare la spina” dai rapporti ma riattaccarla bene a tutti. Poi il motivo per il quale ci hai scritto mi rincuora; mettere a fuoco la contemplazione, perché è nella preghiera che tutto cambia ed è lì che si diviene eucaristici e pasquali. Sappiamo che non è un invito a fughe dall’azione perché la tua agenda è fitta come (direi anche più) della nostra di preti, ma è evidente che nella tua agenda di lavoro non scordi mai l’azienda per cui si lavora, il Regno di Dio. Leggendo poi il contenuto mi hanno stimolato alcuni passaggi, in particolare questa sintesi che mi è piaciuta: “La contemplazione infatti non è un fine della vita cristiana, ma un mezzo per conseguire il carisma più grande, la carità, e un modo per esprimere la carità verso Dio ed i fratelli”. Grazie per queste “chicche” che poi appunto alla bacheca interiore. La “mistica della trasformazione” che sottolinei è l’aspetto più fecondo della fede che è visibile non solo nel tuo magistero ma anche nel tuo ministero. Mi stimola ad essere anche nei fatti contemplattivo ed a vedere una santità non solo possibile ma anche desiderabile, non solo interiore ma anche utile ai fratelli. Guardando poi lo stile con cui ci scrivi apprezzo non solo la passione per questa amata chiesa e noi preti, non solo il modo comunicativo con cui curi ogni scritto, ma anche la confidenza con cui condividi tutto questo.
don Alessandro Zavattini
Non c’è carità senza preghiera
QUANDO ero bambino gioivo e mi sentivo consolato nel vedere mio babbo e mia mamma abbracciati, che si dimostravano il loro affetto e diventavano tanto credibili nel loro amore. Così, analogamente, ho tanto gioito nel ricevere la lettera del Vescovo sulla contemplazione: ho gustato la sua paternità nel focalizzare l’unica cosa necessaria della vita cristiana e sacerdotale e soprattutto nel sentire quanto lui ci creda.
Come sono vere le parole del Vescovo: “La preghiera per Paolo non è un optional: è come l’aria, come l’acqua o il pane, di cui non si può fare a meno pena la morte… la preghiera è un bisogno del cuore, una necessità primaria e ineludibile!”. È proprio vero non si può vivere senza la preghiera, né come cristiani, né come uomini, né tantomeno come sacerdoti!!
Diceva S.Agostino: “Chi impara a pregare, impara a vivere!” E aggiungeva K. Barth “Il cristiano comincia con la sua preghiera e cessa di essere cristiano se cessa la sua preghiera”. Madleine Delbrel aveva questa battuta meravigliosa: “La preghiera è il primo comandamento del cristiano in funzione del quale deve essere pesato, misurato, sorvegliato tutto il resto. Non si può agire per Dio senza pregare. La carità del prossimo senza la preghiera, l’evangelizzazione senza la preghiera non possono né agire, né esistere, sono delle finzioni!”.
Dopo 37 anni di vita, dopo 12 anni di sacerdozio, dopo oltre 10.000 messe assistite o celebrate, dopo migliaia di ore “passate” in chiesa e attorno alle chiese posso confessare con tutta sincerità che io non riesco ad amare, io non so credere e non so sperare senza la preghiera. Io non riesco a capire il mio sacerdozio senza “lasciarmi amare da Lui”, “lasciarmi abbagliare dal Suo Volto!” attraverso la preghiera: sono un fallito senza questo dono!
Grazie Eccellenza, perché non ci scandalizza, ma ci riporta alla Verità , quando dice : “più vado avanti negli anni e più mi pare di non saper pregare…”. Perché anche noi sacerdoti ogni giorno dobbiamo scegliere ogni giorno Gesù che mi chiede: “Mi ami tu?” E ogni giorno possiamo dire:“Gesù, Maestro, insegnami a pregare!”.
Concludo con una piccola confidenza che è anche un sincero grazie al vescovo Francesco: tutte le mattine in parrocchia abbiamo l’adorazione, tante mattine mi giro, al suono della sveglia che mi chiama alla preghiera, impigrito nel mio sonno. Ma la molla che mi scuote è proprio il sapere che il mio Vescovo, di una generazione più grande di me e con tanti impegni, è in preghiera ogni mattino presto. Grazie e che la preghiera sia il “nuovo programma rivoluzionario dell’evangelizzazione del 3°millennio!”.
Don Concetto Reveruzzi
Incontro alle nostre difficoltà
E’ SIGNIFICATIVO e provocatorio l’invito che il Vescovo ci rivolge proprio nel cuore dell’estate, quando i preti trottano per campeggi e le parrocchie rischiano di sedersi, vuoi per la diaspora dovuta alle vacanze, vuoi per il caldo pesante.
Grazie al Vescovo per la schiettezza e il coraggio con cui ha messo a nudo la sua anima davanti a noi, parlandoci del suo cammino di preghiera in modo vero e non formale.
Questa lettera viene incontro ad una nostra difficoltà, perché la tentazione grande è di pensare che la cura di una comunità comporta così tanti impegni che puoi anche permetterti di rimandare la preghiera a dopo, a domani… e così pian piano le cose da fare diventano un alibi o peggio ancora un idolo. Mentre la nostra vita (come la vita di tutti!) si gioca soprattutto in un rapporto, in una relazione, dentro a quell’abbraccio con cui Cristo ci fa sentire suoi. La delusione, la scontentezza, la stanchezza fanno breccia in noi quando si sbiadisce quella Presenza. Mi sembra esemplare la scelta dell’apostolo Paolo come icona da cui imparare, Lui che ha consumato la vita nel servizio alle Chiese senza mai distogliere lo sguardo dal volto di Cristo.
Proprio il mese scorso sono stato in Turchia con alcuni preti nei luoghi che hanno visto l’azione evangelizzatrice dell’Apostolo, e lì si coglie ancora meglio come i suoi viaggi missionari fossero pensati e preparati con una strategia attenta che teneva conto dei molti fattori in gioco, ma erano sempre animati e riempiti dal soffio dello Spirito.
Delle tante indicazioni, due in particolare mi hanno colpito. L’invito ad una preghiera “incarnata”, che parte dalla vita. La preghiera del prete non è qualcosa di altro rispetto ai tanti incontri, vicende e fatti che ogni giorno viviamo, anzi tutto questo può diventare occasione di lode, supplica, invocazione. E il richiamo alla Lectio Divina, come sottolineatura di ciò che è il “proprium” della preghiera cristiana, vale a dire l’ascolto di un Dio che ci parla e ci interpella attraverso la Parola.
In tempi dove anche la preghiera subisce il forte condizionamento della ricerca esasperata di vaghe emozioni spirituali abbiamo bisogno di cammini chiari e coraggiosi.
Don Giampaolo Bernabini
La preghiera di chi si sente amato
QUANDO tre settimane fa il Vescovo mi interrogò sul suo scritto mi trovò da subito impreparato. Non avevo ancora ricevuto la lettera e così mestamente non ho potuto accogliere il suo desiderio di condivisione. Sono poi partito per Camaldoli e al mio ritorno ho trovato la lettera sulla scrivania. L’ho letta di un fiato. E mi sono dett:“questa la dovevo proprio leggere dopo una settimana di silenzio monacale”.
Davvero bella: semplice, ordinata, teologicamente corretta.
Per uno spazio di riflessione di qualche riga, come richiestomi, mi soffermo su una sola intuizione di quello scritto. Il vescovo Francesco ad un certo punto parla non tanto di un pregare quanto di un essere pregato. Esattamente scrive: “Nella contemplazione i verbi vanno coniugati al passivo, più che all’attivo: dovrei dire non io prego, ma sono pregato, nel senso che è lo Spirito di Gesù risorto che prega in me”. Bella questa intuizione. Mi ricorda gli scritti di Anna Masi che spesso nel suo diario parlava di un essere contemplata da Gesù. Mi colpiva molto.
Questa angolatura nella preghiera è molto importante per i nostri tempi, perché ci libera da un dramma spirituale: l’orazione da prestazione. Pregare è sempre chiedere, ringraziare, dire, fare… quasi mai un essere contemplato! Eppure gli occhi di Dio si dilettano della nostra presenza nella preghiera. Così scriveva santa Teresa nella definizione più bella di preghiera che io conosca: “la preghiera è un intimo trattenimento con cui Colui dal quale sai di essere amato”. La preghiera è quindi un lasciarsi andare ad una intimità sponsale, da innamorati. Troppo facilmente, invece, scivola in un esercitare un compito, un assolvere un dovere.
Guardare la preghiera con l’accentuazione della tenera passività ci aiuta a ritrovare una intimità che è fondamentale per la nostra affettività, specialmente di noi preti. È proprio la nostra categoria che più di altre soffre di moralismi e rigidità. Il nostro ministero, spesso pesante a livello psicologico, ci impone inevitabilmente meccanismi di difesa che vanno purtroppo a levigare la tenerezza e la dolcezza e ci impoveriscono affettivamente. E così dal profondo il nostro cuore inizia a gridare.
È un grido a volte silenzioso e leggero come il vento di Elia nella caverna, a volte impetuoso e possente come le lingue di fuoco del cenacolo; è comunque un grido che ci interpella nell’intimo. Ed è nell’accettazione di questo invito intimo che si gioca la nostra vita di santità. Nell’economia della salvezza la realtà non è ciò che appare esternamente. La stessa pastorale operosa o la dirittura morale o la riconoscenza pubblica non dicono quasi mai il vero a riguardo della nostra vita interiore. Neppure la carità è in grado di giudicare l’uomo, perché a volte ci si può far belli per cose non nostre. Un prete lo si giudica da come prega, da come parla con Gesù, dal suo essere innamorato del maestro. E la gente riconosce subito se un prete prega.
don Franco Mastrolonardo