Da sei anni don Antonio Rafael, sacerdote africano, risiede per studio in Italia, e da tre stagioni vive ed opera nella parrocchia San Martino di Bordonchio. Ne abbiamo approfittato per intervistarlo sulla sua vita religiosa prima in Africa e poi in Italia.
Don Antonio, ci racconti un po’ la sua esperienza sacerdotale in Mozambico!
“Ho iniziato il mio sacerdozio nell’arcidiocesi di Nampula, dopo essere stato ordinato nel 1995 assieme ad altri tre sacerdoti, i primi dopo la fine della guerra civile. Questa di Nampula è una immensa arcidiocesi, la terza per grandezza (sono 81.606 Kmq per una popolazione di 3.861.347), e per me era una vera e propria impresa operare da solo in una comunità di fedeli così grande ed estesa”.
In che senso, non mi dirà che era l’unico sacerdote presente?
“Sì, proprio così. La situazione in queste comunità è veramente difficile; i sacerdoti sono pochi e il bisogno è tanto. Molto spesso le diocesi restavano senza celebrazioni per due o tre mesi, perché da solo non riuscivo a soddisfare tutte le richieste, perciò si andava a rotazione. Si conoscevano solo dei centri delle piccole zone, e non si riusciva mai a sapere, come avviene invece qui, chi fossero e da dove venissero molti parrocchiani. L’affluenza alle messe era veramente tanta e spesso la chiesa, o la baracca, era troppo piccola per ospitare tutti quanti, e allora la celebrazione si faceva fuori all’aperto”.
Quindi gravava tutto sulle sue spalle?
“Non proprio; è vero che io ero l’unico sacerdote, ma in queste situazioni, proprio per rimediare al numero ridotto di consacrati, un ruolo importante viene affidato ai laici. Questi vengono eletti ogni cinque anni dalla comunità cristiana stessa; sono persone di fiducia, scelte per gestire la comunità e per la celebrazione della parola, ma non hanno il ruolo dei ministri dell’eucarestia o dei diaconi perciò non possono celebrare la messa”.
Insomma una sorta di “vicario laico del parroco”?
“Sì, più o meno! Pensa che quando ero parroco nel santuario di Santa Maria madre del Redentore a Meconta, e lo sono stato per cinque anni, le comunità cristiane erano addirittura 43! E non solo: nel contempo ero parroco anche a San Giovanni Brito a Muecate; capisci quindi quanto può contare l’aiuto dei laici che affiancano l’operato di noi sacerdoti, che altrimenti da soli non riusciremmo ad arrivare dappertutto.
Una bellissima esperienza di cooperazione tra Chiesa e laici! Immagino che questa collaborazione si sviluppi anche per gli altri bisogni della comunità, non solo se parliamo di fede.
In queste comunità – completamente rase al suolo e messe a dura prova durante la guerra civile – manca tutto! Ogni cosa è andata distrutta e molto ancora si fatica a ricostruire. Una mia grande preoccupazione sono sempre state le scuole. È per me inaccettabile vedere bambini di ogni età buttati per terra sotto gli alberi, accanto ad una strada trafficata mentre tentano di seguire una lezione improvvisata sul momento, e senza neppure un foglio in mano. Per questo con l’aiuto di molti laici abbiamo costruito e aperto delle scuole. Per questo motivo «Prete Costruttore» era diventato il mio soprannome”.
Don Antonio, quali altri progetti l’hanno visto coinvolto?
“Quando ero a Marrere, una parrocchia di città, oltre ad insegnare in un collegio maschile, ero viceparroco della radio Incontro; ed è stato questo il motivo che mi ha spinto a venire in Italia nel 2002. Non sapendo nulla di comunicazione il mio Vescovo, Tome Makhweliha, ha insistito perché mi iscrivessi all’università Pontificia Salesiana a Roma, per studiare scienze della comunicazione, in cui ora sono laureato.
Dopo la laurea tornerà in Africa?
“Ancora non so quando, ma sicuramente sì. In Mozambico oltre al progetto della radio e all’insegnamento in Università, il Vescovo Tome mi ha chiesto di dirigere la rivista Vita Nuova, e proprio per questo continuo a seguire corsi, ma sarà una impresa difficile perché da noi mancano attrezzature e collaboratori validi, il nome della rivista già c’è, ma bisognerà farla «resuscitare»”.
Attualmente vive nella parrocchia di Bordonchio: come si trova?
“In un certo senso è stata l’esperienza in parrocchia la vera scuola. Quando studiavo a Roma la mia vita era: università-studio-collegio; mentre in parrocchia il contatto con la gente mi ha fatto scoprire il vero senso dell’accoglienza. Il popolo italiano poi è aperto, e molto ha in comune con la mia gente che ha origini coloniali portoghesi; una preziosa esperienza che porterò con me quando tornerò in Africa”.
Laura Pagliani