Roberto ne ha passate di tutti i colori. Da quattro anni ha una nuova “famiglia”, quella in via Borgatti. Emanuela ha 16 anni e un passato difficile da portare sulle spalle. Ma si aggrappa alla speranza e ha tutta l’intenzione di costruire un futuro, il suo futuro. Roberto ed Emanuela sono due nomi di fantasia, ma le loro storie sono vere, così reali che – sole – basterebbero per fotografare la realtà del “San Giuseppe”. La Fondazione per l’aiuto materno e infantile ha una storia centenaria ma preferisce più i fatti alle parole e così sono in molti a non conoscerne non solo l’attività, ma nemmeno hanno mai varcato le porte dei suoi ambienti che pure – almeno quelli in corso d’Augusto, nel cuore della città – costituiscono una fetta di storia di Rimini.
“Quando non c’è una rete familiare in grado di sostenerli, i minori ci vengono affidati per periodi più o meno lunghi. – spiega il presidente della Fondazione, Paolo Mancuso – Di solito, si tratta di ragazzi con gravi problematiche alle spalle, sia fisiche che psicologiche e affettive, vittime dell’autismo come dell’abbandono o dell’incuria”. Questi ragazzi e ragazze di età compresa tra i 6 e i 17 anni, il San Giuseppe li accoglie nelle sue quattro strutture: le due comunità socio-educative residenziali (quella di via Borgatti e via Clementini), la comunità socio-educativa semiresidenziale (sempre in via Clementini) e il centro socio-riabilitativo diurno per disabili qui, presso La Sorgente, la responsabile Elisabetta Savorelli e la sua equipe si fanno in quattro per aiutare i disabili ad acquisire autonomia nelle attività quotidiane e a potenziare le capacità cognitive e relazionali. Quando la famiglia “San Giuseppe” è al completo ospita 40 persone. In prevalenza sono riminesi o vengono dalla Provincia, ma non di rado il Tribunale dei minori bussa a chiedere aiuto e invia in città ragazzi da Parma, Reggio Emilia e Cesena, ai quali la famiglia non riesce temporaneamente ad assicurare le proprie cure, oppure per i quali non è possibile la permanenza nel nucleo familiare originario. “Sono preoccupato più per l’impoverimento culturale e relazionale delle famiglie, che non per quello economico. – ammette senza retorica l’assessore ai Servizi Sociali del Comune di Rimini, Stefano Vitali, lui che di politiche familiari se ne intende, impegnato com’è da anni ad accogliere «figli» nella sua casa-famiglia – Inoltre oggi aumentano le famiglie di tipo e stampo diverso da quella tradizionale, e se nessuno spiega ai figli cosa sta succedendo, faranno fatica a crescere in modo armonioso”.
Da amministratore e operatore, Vitali conosce bene la realtà del “San Giuseppe”, che rimprovera bonariamente di aver fatto poco per presentarsi alla città: “ha prodotto servizi, e servizi di qualità, nell’ombra, puntando ad investire sulle persone e sul futuro”. Quasi a rispondere all’assessore, la Fondazione per il centenario (che cade nel 2010) ha pensato bene di fare le cose con stile, realizzando un evento scandito in tre momenti. Il primo lo ha dedicato al trentennio d’esordio dell’istituto (1910-1930), organizzando un convegno e pubblicando il libro La storia di un valore. L’Istituto San Giuseppe per l’Aiuto Materno e Infantile dagli inizi del novecento agli anni ’30, realizzato da Antonella Chiadini e Paolo Freddi. Successivamente sono in agenda altri due momenti pubblici: nel 2009 quello dedicato al periodo 1939-1970 (“la pediatria a Rimini”) e l’ultimo nel 2010 che si occuperà degli anni dal 1970 all’oggi con attenzione puntata al tema dell’assistenza sociale.
“Passano gli anni, ma l’agire della Fondazione si basa ancora oggi su due capisaldi:– assicura il direttore generale Francesco Soldati – carità cristiana e solidarietà civile”, gli stessi che hanno decretato l’incontro tra gli iniziatori dell’Istituto, lo scienziato Antonio Del Piano e la religiosa suor Elisabetta Soleri.
Soldati alle luci della ribalta preferisce la fredda lucidità dei numeri. Gira e rigira tra le mani il Bilancio sociale e di missione. Un dato su tutti: il valore aggiunto e prodotto dalla Fondazione, cioè la ricchezza sociale prodotta e distribuita, è in costante aumento: nell’ultimo triennio è passato da 169.876 a 330.664, una ricchezza ampiamente riversata sul personale che ne percepisce più dell’80%. Gli sforzi economici portano a risultati sul campo, percepiti anche dai familiari dei ragazzi accolti. Lo testimoniano le risposte dei questionari proposti dagli operatori, ai quali ha risposto ben il 90% dei familiari degli ospiti dei centri socio-sanitari. Nel complesso il giudizio è buono, e i familiari tendono ad esprimere “voti” più positivi rispetto agli assistenti sociali. “Gli operatori vantano tutti un solido curriculum di studi alle spalle – assicura il coordinatore Roberto Vignali –ma occorrono anche altre qualità relazionali per governare la barca”.
Gabriella è contenta degli amici di via Borgatti e degli educatori che la seguono. I numeri e le percentuali non la interessano troppo, per lei conta la parola di William Zavoli, che della casa è il responsabile. Come lei, tanti altri. Le famiglie sorridono, i servizi sociali pure. Solo il bilancio del San Giuseppe è incline alla smorfia. Colpa di quei Comuni – e non sono pochi – che non sono per nulla solleciti nel versare all’Asl le quote dovute per i servizi erogati, che a sua volta l’Asl non gira nelle casse dell’Istituto. L’ultima Conferenza socio-sanitaria ha previsto un piano di rientro, il “San Giuseppe” attende. Lo ha sempre fatto, ci sono minori bisognosi di affetto, stima e autonomia che – ieri come oggi – non possono essere abbandonati.
Paolo Guiducci