Un cambiamento epocale. Per i malati, per le loro famiglie ma soprattutto per i medici, alle prese con un futuro pieno di incognite ma anche ricco di sfide affascinanti. A 30 anni di distanza dalla chiusura dei manicomi, la psichiatra Silvia Tagliavini riavvolge il nastro dei ricordi e torna a quel maggio del 1978.
“Se veniva chiuso il posto dei matti, tutti venivamo chiamati ad un coinvolgimento perché ce li saremmo trovati accanto in autobus, al bar, per strada, al lavoro: non eravamo abituati a considerare questa possibilità. E forse come cittadini e come cristiani non eravamo neanche preparati a questa nuova richiesta di accoglienza e di collaborazione con gli operatori della psichiatria e con le famiglie, che se da un lato si rallegrarono di non dover portare più un marchio amaro, tenuto riservato o segreto, e sperarono in una modalità nuova di cura, presto si accorsero di dover portare altro peso, concreto ed emotivo e a volte sproporzionato alle loro forze. Per noi psichiatri e operatori, furono anni effervescenti ed anche entusiasmanti: si dovevano inventare modalità nuove di incontro e di relazione con la persona sofferente, si dovevano avvistare strade terapeutiche già percorse da pionieri e rivisitarle per applicarle nelle varie realtà territoriali, si doveva cercare un equilibrio giusto fra l’eccessiva denigrazione dei farmaci e l’altrettanta eccessiva esaltazione della libertà e colpevolizzazione della società”.
Il manicomio era diventato il ricettacolo dei quadri più diversi: dai cerebrolesi agli anziani dementi, dai deviati sociali ai barboni, con l’aggiunta dell’emergente fenomeno della tossicodipendenza.
Certo la spinta idelogico-politica marxista fu fortissima e il mondo cattolico fu emarginato. Ma furono proprio le strutture cattoliche le prime ad aprirsi per accogliere le tante persone che in certe aree nazionali subirono le conseguenze della deistituzionalizzazione. Nel nostro territorio ci furono strutture che in modo silenzioso ma competente offrirono modelli innovativi di eccellenza, capaci di reintegrare nel tessuto sociale, di riabilitare e di ridare dignità piena, oltre che voce, a tante persone fino ad allora ignorate. Ne sono esempio le Case Famiglia della Papa Giovanni, l’attività del Fatebenefratelli e dei Camilliani. Anche le Caritas furono in prima linea, chiamate ad occuparsi dei nuovi bisogni.
Ma oggi com’è la situazione oggi?
“A distanza di 30 anni e con una lunga esperienza di lavoro, di cura, di riabilitazione nessuno parla più di riaprire i manicomi. Si è capito come una modalità senza prospettive, senza progetti articolati, senza una relazione intensa tra curante e curato, fatta di fiducia sulle potenzialità e sulle risorse sia del paziente sia del contesto familiare e sociale, porti a risultati nulli se non negativi e cronicizzati. Certo c’è ancora tanta strada da fare e c’è bisogno che tutti tengano alta la guardia innanzitutto per non regredire perdendo i livelli raggiunti. L’indifferenza collettiva ha un peso enorme: c’è risveglio solo quando fatti di cronaca creano un allarme indebito e spesso sproporzionato”.
C’è poi il problema della diversità delle patologie.
“Esatto, le patologie psichiatriche sono diversissime e vanno curate con modalità differenti e con strumenti e metodi specifici. Per questo i reparti di Diagnosi e Cura sono i più contestati, non per la dimensione di 15 posti letto e neppure per i tempi di degenza, ma perché devono accogliere le patologie più diverse contemporaneamente creando vicinanze non terapeutiche e dovendo affrontare situazioni che spesso di psichiatrico hanno ben poco”
Qual è il rischio?
“Che si riproponga silenziosamente la modalità di ricovero che caratterizzava il vecchio manicomio: un’adunata di derelitti. In epoca in cui la medicina si va sempre più specializzando e che le diverse patologie ottengono considerazioni e ambiti di cura differenziati, per cui è superato il concetto di Reparto unico, la psichiatria si è andata sempre più indifferenziando a scapito di priorità e specificità di interventi e di cure. I giovani con esordi psicotici, gli adulti con situazioni di cronicità, i diffusi disturbi di personalità, le varie forme depressive, le situazioni di disagio esistenziale, sono quadri differenti che esigono attenzioni diverse e interventi separati”. (ci.sa.)